Dal 1860 Al 1900
Anche i proclami garibaldini del 1860 furono interpretati dai “civili “ come incitamento alla conquista della libertà politica, se necessario, anche mediante l'unione all'Italia, mentre le grandi masse contadine credettero che quei proclami promettessero la divisione delle terre e una certa giustizia sociale.
Questa doppia e diversa interpretazione del pensiero e dell'opera di Garibaldi, rese le amministrazioni locali spesso ambigue nei loro comportamenti, poiché i “civili “, che le formavano, spesso stettero a guardare verso chi pendesse la bilancia della vittoria, cioè se verso i Borboni o verso i Garibaldini, per imporre poi il loro ordine, camuffandosi delle idee dei vincitori.
Di qui le accuse dei governatori militari garibaldini, che pur essi appartenenti alla classe della borghesia o dei civili, non potevano capire l'odio represso delle masse contadine, che spesso sfociava in rivolte di tipo sociale contro la classe dei proprietari.
Nino Bixio o il generale Poulet che erano di estrazione borghese, acquartierati in Adernò, non comprendendo i moventi delle rivolte contadine, le presero, con prevenzioni classiste o meglio di ceto,come manifestazioni di bestiale ferocia e le repressero colle commissioni di guerra e coi plotoni di esecuzione, che spesso si acquartierarono in Adernò.
In Adernò tra guardie nazionali e truppe garibaldine il popolo fu tenuto a bada e soltanto ebbero libertà di azione i liberali moderati, non contrari alla unificazione col Piemonte.
La Guardia Nazionale adornese era capitanata da don Antonio Arcoria e da don Francesco Sangiorgio Mazza, che con le loro truppe paesane eseguivano azioni di rastrellamento e di repressione dei moti popolari non solo in Adernò, ma anche nei paesi vicini e specialmente a Biancavilla.
Se è vero che in Adernò la bandiera italiana sventolò sul castello non molto dopo lo sbarco di Garibaldi, è anche vero però che, quando i garibaldini passarono per Adernò, il paese apparve quasi deserto, niente popolo entusiasta, una sola signora ad un balcone della via nuova..
Comunque i tempi erano maturi almeno per la rivolta politica, specialmente dopo il sanguinario governo di Ferdinando II di Borbone (18301859) che cercò di dissanguare con ogni sorta di tassazione la Sicilia: si pagava anche una tassa per le finestre e per i balconi, si ripristinò la gabella del macino: insomma l'isola registrò un grave arretramento in tutti i settori accumulando un enorme debito pubblico, cadendo nello strozzinaggio della banca Rothschild.
La fame più nera era tornata anche in seguito al decreto borbonico del 28-4-1855 con cui si permetteva la libera esportazione di vettovaglie ai grossi produttori, mentre per la scarsezza del lavoro e per i salari assai bassi le grandi masse dei lavoratori non potevano comprarsi neanche un tozzo di pane.
Questo spiega in parte l'entusiasmo suscitato anche nelle masse dalla conquista del dittatore Garibaldi. Questi con decreto 14-5-1860 istituiva una milizia obbligatoria a cui venivano obbligati gli uomini dai 17 ai 50 anni, ma tale iniziativa non fu bene accolta dalle masse popolari, che non erano abituate a tale servizio e che invece avevano il desiderio di avere una terra che bastasse ad alimentarle famiglia per famiglia.
Anche qualche aspetto sociale della questione fu preso in considerazione da Garibaldi, che con successivi decreti aboliva il dazio del macino, quello delle importazioni di vettovaglie e prometteva di dare la precedenza ai combattenti per la libertà nella divisione delle terre comunali.
Inoltre stabiliva con scarso realismo di distribuire le terre demaniali a tutti i capi famiglia poveri, non possidenti.
In Adernò per tenere in piedi l'amministrazione e tenere l'ordine si costituì il 1 luglio 1860 un Consiglio Civico presieduto da don Lorenzo Ciancio, che prendeva ordini dal governo militare di Catania e dava ordini al sindaco di Adernò, che in quell'anno fu don Nicola Guzzardi Minissale.
Fra i principali provvedimenti si crearono 12 guardie municipali, si riunì la commissione elettorale nella Matrice, essendo vicario don Rosario Piccione, si elesse un giudice conciliatore nella persona di don Antonio Ciancio, si elesse il secondo commesso della cancelleria comunale nella persona di don Vincenzo Ciancìo, si elessero due guardaboschi nelle persone di don Gaetano La Mela e don Pietro Di Stefano, si elesse giudice supplente don Gioacchino Guzzardi Battiati, si istituì una commissione edilizia detta dell'“ornato “ per dare un aspetto più decente ed elegante alle strade e alle fabbriche, si acquistò il sigillo del Comune.
Inoltre si scrisse una lettera d'invito a Garibaldi, cogliendo l'occasione per vantarsi del fatto che “le squadre e la Guardia Nazionale adornesi insieme al colonnello Poulet avevano riportato l'ordine in Biancavilla “ e del fatto che “Adernò era stata riguardata come la chiave della sicurezza dell'intera provincia sempre scelta da tutti i governi a quartiere per truppe tutelari dell'ordine “.
Si proponeva anche al dittatore di stanziare in Adernò una forza opportuna, “essendo questa un punto strategico per spiare i movimenti dei tanti Comuni circostanti, dove il popolo era politicamente più vivace”.
Si diceva inoltre: “Sappia il dittatore che in Adernò nei primi momenti dello sbarco inalberò il tricolore e si mise in contato con lui, mandandogli il compatriota don Nunzio Inzerilli, mentre a Palermo infuriava la battaglia”.
Il 2-8-1860 si comunicava al governatore di Catania l’arruolamento e l’equipaggiamento a spese dei buoni cittadini di un gruppo di reclute, guidate dai capitani don Antonio Arcoria e don Francesco Sangiorgio Mazza, ambedue del ceto dei galantuomini.
In data 3-8-1860 si insediava la commissione per lo scrutinio delle domande di quelli che chiedevano per sorteggio le quote di terre comunali.
Si provvide ad illuminare con fanali a petrolio la statua di S. Nicolò, mentre si chiedevano al governatore di Catania maniere forti contro alquanti malvagi cospiratori contro l'ordine pubblico, che attentavano alla vita e alla proprietà dei cittadini. Si trattava di disoccupati o di reclute sbandate con l’aggiunta di un rilevante numero di briganti e di latitanti per renitenza alla leva.
Inoltre si chiese al governatore di Catania di eliminare gli intrallazzi derivanti dal fatto che gli amministratori erano fra loro parenti stretti, il che dava possibilità di frodi, specialmente nell'assegnazione di quote di terre comunali, che dopo qualche passaggio più o meno lecito finivano nella mani dei cosiddetti galantuomini.
Venne eletto sindaco il barone don Giuseppe Pulìa, che provvide a fare funzionare la predetta commissione dell'ornato pubblico del Comune e quotizzo alcune terre comunali.
Si assegnarono onze 18 per il mantenimento del teatro, si riordinarono i conti delle opere pie: Spartà, Di Maggio, Cerami, La Ferla, Sicilò, Pisani e altri.
Si inaugurò il liceo comunale.
In data 27-IV-1862 si decise la costruzione di 8 fanali per la pubblica illuminazione e si incanalarono le acque delle sorgenti di S. Giovanni
Si chiese ancora al governatore di Catania di provvedere acciocché si ponesse termine agli abusi di potere del maresciallo dei carabinieri, che aveva dato motivi di querele a molti cittadini, sia con sfacciate richieste di indennizzi non dovuti, sia per condotta morale, sia perché rilasciava libero qualche carcerato in cambio di un donativo e faceva uso della violenza, percuotendo anche onesti cittadini.
Si provvide inoltre a lastricare la via Garibaldì e la via Roma (chiamata allora via Nuova), si comprò anche dal canonico Vincenzo Guzzardi un tratto della Vigna di corte, che era malsana a causa degli acquitrini, per farne una zona di pubblica utilità (un passeggio).
Infine in seguito alla legge di soppressione delle case religiose in data 1-7-1866 il consiglio comunale chiese allo Stato di assegnare al Comune i conventi di S. Agostino, di S. Francesco, di S. Domenico e i monasteri di S. Chiara e di S. Lucia per adibirli ad usi sociali o pubblici quali: un ospedale, un asilo di mendicità, una scuola tecnica, quartieri per le truppe stanziali o di passaggio, uffici per le imposte, un ospizio femminile, un asilo infantile e scuole elementari.
Questi servizi furono in parte realizzati man mano che gli edifici venivano ceduti; infatti fino agli anni '20 del secolo successivo sopravvissero monache nel monastero di S. Lucia.
In data 17-IV-1867 per dare lavoro si costruì una lunga strada cittadina che dalla chiesa della Catena, per la contrada di Patellaro, la chiusa Gallo, S. Filippo, arrivava alle chiuse della Lisia e allo “stradone di Bronte”.
Nello stesso periodo si lastricava la strada da S. Lucia ai Cappuccini e quella dalla Catena al Teatro Bellini.
In media si raccoglievano 3000 salme di grano, 117 botti di vino, 1 10 cafisi di olio, 20 migliaia di agrumi, 100 cantari di frutta.
Gli agrumi si esportavano dal porto di Catania insieme ad ortaggi, cotone e mandorle, mentre si importavano grano, olio, vino e tessuti.
Il comune si trovava al bivio delle rotabili Catania-Palermo e Palermo-Messina, le strade interne erano strette, tortuose e malbasolate e a fondo naturale.
Il clima era temperato; senza nebbia, con piogge moderate.
La neve sull'Etna durava fino ai mesi estivi.
I terreni erano in maggioranza vulcanici, tranne gli ex feudi di Poggio di Vaca e di Cavallaccio.
I vigneti erano per lo più nelle seguenti contrade: Dagala, Timpone' Solicchiata, Gisterna, Montalto, Luna, Santuzza, Camerone, La Favara, i Pianti e la Stagliata. I giardini di aranci o erano legati all'abitato o si trovavano nelle adiacenze del fiume Simeto.
Questo era l'unico fiume del territorio, con un letto largo in media 30 m. con livello dell'acqua da 35 cm. a metri 3,50 secondo la stagione.
Vi erano il ponte di Maccarrone, il cui arco principale è lungo m. 30 e alto m. 12; il ponte di Biscari nella contrada detta di Cimino; sul ponte passava anche un acquedotto che portava le acque delle lavare di Santa Domenica al feudo Ragona, qualche secolo prima coltivato a riso.
Il ponte di Carcaci o dei Saraceni aveva un arco maggiore di m. 8 per m. 10 di luce.
Vi erano i seguenti guadi: della Carrubba, di Cimino, di Maccarrone, di Mandarano e di Malastalla di Zarbo e di Barcavecchia.
Sempre alla data del predetto questionario si elencavano le seguenti sorgenti: casino Ciancio, San Giovanni, Giobbe, Biviere di Palma, Buglio, Minà, San Nicolò, la Cubba, Santa Domenica, le Ciappe, Irveri, il Serpente, Malastalla, Fogliuta, Naviccia, Sciacca e Santa Elia e Pignataro.
Nel paese si trovavano 155 pozzi della profondità di m. 11.
Vi erano i seguenti mulini ad acqua: della Serra, della Grazia, della Abbadessa, della Rocca, dell'Invidia, del Molinello, di Irveri, del Cimino e di Policello.
Nell'abitato vi erano 26 chiese e 6 in campagna.
I fuochi erano 3300, con circa 13000 anime.
Le locande erano 4: quella detta Dell'Aquila D'Oro con 16 posti letto, quella dell'Etna con 12 posti letto, quella della Sicilia con 26 posti letto, quella di Floresta con 12 posti letto, oltre ad alcuni fondaci, al Tondo e in piazza dell’Erba.
Vi era un ospedale con 7 posti letto e una macchina a vapore per sgranare il cotone.
Il comune possedeva fondi urbani, provenienti dalle soppresse case religiose: in parte dati in aflìtto, in parte dati a censo e in parte usati come scuole, uffici giudiziari, catasto, ufficio delle tasse, quartieri per soldati stanziali o di passaggio, caserme per carabinieri e pubblica sicurezza.
I fondi rustici comunali erano circa 3000 ettari e provenivano dallo scioglimento degli usi civici e dalla soppressione delle case religiose.
La maggioranza della popolazione era composta da braccianti e piccoli proprietari.
Il paese mancava di fognature, di condotte di acqua potabile, di servizi igienici, che rendevano facile il sorgere e il diffondersi delle epidemie specialmente di colera e di tifo.
Elevatissima era la mortalità infantile e quasi totale l'analfabetismo, circa il 90% dei proietti moriva sotto i due anni.
Come possiamo vedere dal verbale di un consiglio comunale del 30-6-1866, gli amministratori erano soltanto della classe dei “civili” e dei grossi borghesi, mancavano completamente le altre categorie sociali, allora era sindaco Nicolò Valastro, segretario comunale don Pietro Campo, consiglieri il barone Benedetto Guzzardi, don Pietro Sidoti, don Nicolò Guzzardi Minissale, don Giuseppe Guzzardi Morabito, don Gioacchino Bulla, don Nicolò Grasso, don Nicolò Battiati, don Nicolò Gualtieri, don Alessandro Ciancio, il resto erano dei grossi borghesi.
Dal testo del verbale veniamo a sapere: “che Adernò era superiore a tutti i comuni circostanti per ricchezze private, per commercio, per agricoltura, per la pastorizia, per le terre comunali, per i suoi edifici, per la sua posizione strategica, per la stazione telegrafica ed elettrica, per gli uffici delle tasse, del catasto, del demanio, per la residenza di un capitano dei regi carabinieri e per la sua sede giudiziaria”. Era inoltre punto obbligato di passaggio lungo le vie interne Catania -Palermo e Messina Palermo.
Nonostante tale importanza il potere governativo e quello provinciale nessuna spesa avevano mantenuto per l'agricoltura e per i contadini piccoli e medi, che pagavano la pesantissima tassa della fondiaria, mentre i braccianti che costituivano la maggioranza della popolazione erano affatto privi di lavoro e costretti a languire senza soccorso alcuno, eccetto qualche elemosina.
Questo si deduce dal verbale di un consiglio comunale del 1867.
Di fatto essendo sia gli amministratori nazionali che locali di estrazione borghese e di idee moderate, non volevano, né sapevano risolvere i problemi dei contadini poveri a cui non venivano neanche assegnale le quote delle terre comunali, perché essi non avevano i capitali per coltivarle, n avevano i capitali per coltivarle, né esistevano casse rurali per frenare l’endemica e atavica usura.
Perciò enormi estensioni di terre andarono ad arricchire i già ricchi, come per esempio quel barone Benedetto Guzzardi, grande mazziniano, che ritagliò per sé una sostanziosa fetta delle terre dell'ex monastero di Santa Lucia.
A causa delle precarie condizioni della classe contadina, per tutta la metà del sec. XIX e fino al 1911 si diffusero periodicamente rovinose epidemie di colera, di tifo, di difterite, di vaiolo nero, che colpivano in prevalenza i più poveri, mentre chi stava bene e, anche spesso, le stesse autorità cittadine se ne fuggivano nelle loro case di campagna.
Certo non mancarono anime buone, anche forestiere, nel tentativo di alleviare la fame e le sofferenze delle masse popolari.
Il potere alle richieste di lavoro e di pane rispondeva con bastonature, umiliazioni ed elemosine; questo spiega in gran parte il diffuso fenomeno del brigantaggio, del ladroneggio, della prevaricazione di tipo mafioso, di chi anche con le cattive intendeva accaparrarsi la terra.
Di qui anche lo stato d'inquietudine e i frequenti tumulti come quelli del 1863, del 1866 e del 1898 in cui era tale il sospetto tra la popolazione e le forze dell'ordine, che molti cittadini così detti “civili “ finivano con l'asserragliarsi nelle case di campagna. La famiglia “civile “ dei Crucillà, venne quasi sterminata per un errore delle forze dell'ordine, nella sua casa di campagna in contrada del “Camerone “.
Tumulti si ebbero anche nel Marzo del 1898 in cui le masse affamate protestarono con grande paura dei benestanti.
Il sindaco di allora don Antonio Inzerilli lasciò scritto nella sua relazione che, per venire in soccorso della classe più povera e maggiormente svantaggiata per mancanza di lavoro, nelle feste di carnevale distribuì mezzo chilo di pasta a testa e cinquanta centesimi ai moltissimi bisognosi e fece appello alla carità dei benestanti e delle autorità per formare un comitato di beneficenza per la raccolta di elemosine per i più bisognosi.
Questo sindaco in un primo tempo aveva rifiutato il, grano, quasi guasto, che giaceva nei magazzini militari, poiché i sensali gli assicurarono che in Adernò c'erano circa 2000 salme di grano buono, che invece per motivi speculativi e per sfuggire il dazio, i ricchi produttori avevano venduto di notte ad altri paesi, mentre la fame tormentava gran parte degli adornesi.
Davanti allo spauracchio del tumulto, questo sindaco si convinse a comprare il grano militare per provvedere di pane le botteghe, ma, poiché il tumulto non si placava, fece intervenire l'esercito e le forze dell'ordine per arrestare i partecipanti al tumulto, che erano in maggioranza povere madri di famiglia, contro i cui mariti egli chiamò rinforzi dal prefetto di Catania.
Come era avvenuto fin dal periodo spagnolo, l'apparizione del prefetto calmò la folla, poiché in fondo le masse avevano rispetto delle autorità.
Per tenersi buona la maestranza disoccupata e affamata, si programmarono opere pubbliche come l'apertura della via Guzzardi nel quartiere della Catena, si sistemò la piazza Sant'Agostino, si costruì la piazza del Mercato, si spianò la piazza di Gesù e Maria e si sistemarono altre strade.
In questi lavori si occuparono 651 muratori, 36 scalpellini, 760 manovali, 120 carrettieri e 1165 terraggieri.
Il sindaco Inzerilli nella sua relazione che porta la data del 26-6-1898, esortava i consiglieri a prendere altri provvedimenti per prevenire i germi della guerra civile e del brigantaggio, che trovavano un terreno favorevole nella estrema miseria delle masse popolari.
La stessa diagnosi dello stato di Adernò faceva il prevosto Salvatore Petronio Russo in data 15-12-1897, nella relazione per il campanile della chiesa Madre.
In essa così concludeva: “Da tutto un popolo... si diede pane e lavoro e si nutre fiducia... che in Adernò avverrà la crisi e lo sfratto dei numerosi furti e delitti che si erano deplorati per mancanza di lavoro... “. Purtroppo poco si fece per affrontare i problemi sociali, che dopo il fallimento dei “fasci dei lavoratori” trovarono sfogo nella selvaggia emigrazione verso l’America. E coi disprezzati emigranti italiani si sposto prese vigore anche la mafia.