Il periodo dei Vicerè
Dal 1412 al 1515 sotto i vicerè di Ferdinando I (1412-1416), di Alfonzo il Magnanimo (1416-1458) di Giovanni (1458-1479) e di Ferdinando II (14791515), furono padroni di Adernò Giovanni Moncada (1414-1454), Giovanni Raimondo IV Moncada (1454-1466), Giovan Tommaso Moncada (14661501), Guglielmo Raimondo V Moncada (15011515) e Antonio III Moncada (1511-1549).
In questo tristissimo periodo i sovrani di Spagna in Sicilia fecero mercato di tutto, vendendo più volte alcune città, dopo aver promesso ad ogni vendita di non rivenderle, autorizzando in tal caso gli abitanti a ribellarsi contro il re, senza essere puniti per lesa maestà.
I padroni di Adernò occuparono cariche altissime civili e militari e, come parenti della famiglia reale, combatterono per la conquista del regno di Napoli (1442).
Essi ottennero dal re Alfonzo la concessione di potere ricettare chiunque, fuggito per reati da altre terre e città, volesse venire ad abitare nella contea per incrementare demograficamente il suo territorio.
Giovanni Moncada e Alagona, gran cameriere di re Alfonzo (1416-1458), ottenne il diritto di “affìdare “ cioè di “ricettare “ e di concedere un lungo periodo di esonero delle gabelle ai “nuovi cittadini “.
Col suo successore Guglielmo Raimondo (1454-1465) il comune cominciò ad accrescersi e il conte e i suoi vassalli laici ed ecclesiastici non ebbero riguardo di saccheggiare anche il monastero di S. Lucia ed impedire che le rendite dei suoi beni arrivassero a Catania, esenti dalla Gabella della estrazione e della dogana.
Fioccarono interdetti e scomuniche da papi e da vescovi catanesi, ma in Adernò non si cessava di molestare le monache benedettine anche con l'appoggio del clero locale, che si vedeva sfuggire i lucrosi uffici di cappellano, di procuratore, di confessore e di predicatore delle monache.
Il ricco monastero feudatario, che aveva trasferito la sua sede principale a Catania, per intervento dei papi Martino V e Paolo II, otteneva dai re Alfonzo e Giovanni diplomi di conferma dei suoi beni, del diritto di libera estrazione delle rendite e di parecchi barili di tonno salato (1445, 1451, 1468).
Anche i Moncada però erano forti presso la corte aragonese: Giovanni aveva ottenuto da Alfonzo il dono del dazio della “quartucciata” sul vino di Giarre, che poi lasciò al figlio Guglielmo Raimondo.
Questo stesso dazio il conte Giovan Tommaso (1461-1501) donò al convento dei francescani di Catania per celebrazioni di Messe.
Il conte Guglielmo Raimondo continuò nella tradizione di famiglia di arricchirsi mediante matrimoni di interesse.
Il suo successore Giovanni Tommaso Moncada e S. Severino acquisì la contea di Caltanissetta e di Augusta.
Fu gentiluomo di camera del re Giovanni, mastro giustiziere, e governatore militare di Catania. Mentre ricopriva questa carica provvide a circondare la torre di Adernò con un bastione o cortina con quattro torri angolari tutte a spigoli nel primo ordine e cilindriche nel secondo e procedette ad un restauro generale della torre che da allora prese il nome di castello.
A memoria di questa ristrutturazione il conte fece porre al centro del bastione nord un proprio busto marmoreo, che è stato scambiato erroneamente per il busto del conte Ruggero il Normanno.
Sotto questo duca si registrarono tre fatti importati per Adernò: si eresse la chiesa di S. Sebastiano, si fecero venire ad Adernò i frati minori osservanti di S. Francesco (1466) sotto il titolo di “S. Maria di Gesù “ e finalmente, si diede il feudo di Poggio Rosso o Callicari per l'insediamento di un gruppo di profughi epiroti, guidati da un capitano di nome Cesare Masi.
Questi, detti allora “li greci”, fondarono un piccolo casale di lingua e religione greco-ortodossa, che però non ebbe lunga vita. Già, dopo appena un secolo, ne era stata soppressa la lingua, era stato abolito il rito orientale ed erano fuggite gran parte delle famiglie, mentre poche avevano preferito assimilarsi ai nuovi emigrati adornesi, dando origine alla terra di Biancavilla.
Il fatto che venissero a stabilirsi ad Adernò frati questuanti indica che ci fosse qualcosa da questuare, cioè ci fosse qualche surplus di grano e di vino nel nostro territorio. I frati, per fare cosa gradita alla generosa Contissella Moncada, introdussero nella loro chiesa il culto della Madonna catalana di Monserrato, a cui il conte donò una rendita annuale e la decima sulle tegole che si cuocevano nelle “calcare” vicine al convento.
I frati ebbero l'esclusiva della questua di grano e di vino in tutta la contea, mentre la loro chiesa era ricercatissima per la sepoltura dei signori catalani e spagnoli che occupavano posti di prestigio in Adernò.
Il conte Tommaso, sposando Raimondetta Ventimiglia, figlia del marchese di Geraci, permise che molti familiari della moglie, costruissero i loro palazzi nel centro di Adernò e nel quartiere di S. Pietro Apostolo.
Uno di questi palazzi, sito di fronte alla Matrice, diverrà nel sec. XVI, la sede della congregazione del Devoto Monte di Pietà o dei Nobili Bianchi e poi nel sec. XIX sede del municipio dell'Adernò post-unitaria.
Sotto il dominio di Tommaso Moncada Adernò era oberata dalle seguenti gabelle:
1) la decima dei raccolti agricoli;
2) un dazio di 16 grani per tumulo di orto;
3) un dazio di dieci grani per ogni salma di pascolo;
4) la decima del bestiame minuto;
5) grani 10 a testa per gli armenti che superavano il numero di tre buoi;
6) diritto della baglia o dell'esercizio della giustizia;
7) gabella del vino esportato;
8) gabella del vino venduto al minuto;
9) gabella del vino ripostato o imbottato;
10) gabella della dogana;
11) gabella della estrazione dei cercali e degli animali;
12) gabella della caccia;
13) gabella della seta greggia;
14) gabella del garrozzone;
15) censo perpetuo irredimibile su tutte le terre.
A Tommaso successe il figlio Guglielmo Raimondo V (1501-1510); questo conte ottenne dal vicerè Giovanni La Muza il privilegio di ripopolare il territorio di Centorbi (4-10-1501).
Da questo diploma o privilegio possiamo dedurre l'immenso potere che riceveva ed esercitava il conte nel suo territorio, dove egli era il padrone della terra, il giudice, il capo militare, con facoltà di ricettare o proteggere chiunque volesse senza che la giustizia reggia potesse intromettersi.
In questo privilegio tra l’altro il re Ferdinando II il Cattolico (1479-1515) diceva: “alla spettaile Gugliemo Raimondo Montecateno, conte di Adernò, di Caltanissetta, di Augusta, signore di Paternò, e caro consigliere, ci avete esposto che voi avete e possedete la contea di Adernò e che nel territorio di essa c’è un casale distrutto chiamato Centrobe e che nei tempi antichi era popolato e fortificato.
Ora voi volete costruire una torre, rialzare gli edifici e introdurvi una popolazione, come si è fatto con altre baronie del regno. Noi in cambio dei servizi resi da voi accettiamo la supplica e vi diamo il permesso di riedificare e popolare il casale di Centorbi con torre, mura e fortificazione e di imporre e percepire i soliti diritti alle gabelle, delle dogane, della baglia delle arrenda ria e tutte le altre imposte che possono imporre gli altri conti del regno.
Avrete sugli abitanti ogni potere civile e criminale e mero e misto impero. Potete stabilire ivi un castellano, un secreto, un capitano, dei giudici dei giurati e gli altri ufficiali necessari e convenienti e da voi ben visti con gli stessi onori di cui godono nella vostra contea di Aderno”
A Guglielmo Raimondo successe il principe Antonio Moncada e Moncada (1511-1549), parente intimo del potente vicerè Ugo Moncada, corrotto alleato dell'Inquisizione e cacciato a furor di popolo da Palermo nel 1516.
Questo Antonio, a causa delle sue altissime amicizie, fu intollerante di ogni legge e ricettatore di delinquenti, come apprendiamo da una lettera inviata a Carlo V dal suo procuratore fiscale in Sicilia Don Antonio Montalto.
Con la connivenza del vicerè Ettore Pignatelli, il conte Antonio Moncada ricettava impunemente nelle sue terre e nello stesso castello di Adernò ricercati di ogni condizioni, come i suoi fratelli Federico e Ferrante e un Perruchio e un Raimondo di Gioeni traditori, ladri e assassini di strada, “mentre, continua il Montalto, il vicerè dovrebbe chiamare il padrone di Adernò e processarlo in carcere...
Inoltre in tempi non lontani questo conte ospitava una banda di 50 fuorilegge capitanati da un certo Mariano Planes da Licodia Eubea “.
Al tempo di questo conte si cominciò a costituire il nucleo amministrativo di Adernò attorno al quartiere di Santa Maria o della Piazza.
Si riorganizzò anche il corpo politico del Comune, formato da funzionari detti ufficiali, presi soltanto da una lista di nobili rigorosamente chiusa alle altre classi.
Di questi ufficiali i più importanti erano: il capitano di giustizia, i quattro giurati, il tesoriere, il giudice civile, il giudice criminale, l'archivista, il mastro notaro, il castellano e il secreto o governatore del conte.
A questo periodo risale la chiesa di Sant'Antonio Abate col suo meraviglioso polittico, oggi alla Matrice, opera forse del pittore Salvo di Antonio nipote del grande Antonello da Messina.
(Di questa chiesa abbiamo un contratto di censo per una casa, agli atti del notaio Nicolò Sangiorgio, relativi all'anno 1555).
Il successore, principe Francesco Moncada e Luna (1550-1566), pose le premesse per il primato della chiesa di Santa Maria Assunta, che sotto di lui venne ingrandita e coperta da un soffitto di capriate scolpite con cariatidi raffiguranti saraceni e con numerosi altari di legno, dove dei cappellani sacramentali somministravano i sacramenti.
Questo conte fece molte donazioni alla Matrice, come apprendiamo da una giuliana o libro dei conti del 1814.
Fra l'altro donò: la barca sul fiume Simeto, le terre del Poggio Santa Maria nel feudo di Poggio di Vaca, alcune terre della Difesa e le terre di Cavallaccio.
Suo nipote Francesco Il (1572-1592), nella sua breve esistenza, diede grande impulso alla edilizia sacra: allora si progettò la Matrice a tre navate.
Si diede inizio alla costruzione del monastero di Santa Lucia nuova, si fondò la chiesa della Catena, si istituì la congregazione del Sacramento della Matrice e si esplorarono i boschi dell'Etna.
Egli teneva la sua corte spesso nella sua splendida tenuta di Mimiano presso Caltanissetta, da dove veniva spesso nella prediletta Adernò che toccava i 6000 abitanti, essendosi accresciuta di un terzo rispetto ai primi del secolo. Vi crebbe anche una robusta classe di borgesi o grossi affittuari di feudi che diedero grande impulso alla produzione del grano (circa 4000 salme annuali) e all'allevamento del bestiame minuto, specialmente pecore e maiali, mentre i buoi scarseggiavano, nonostante le molte leggi protettive emanate dai governi spagnoli.
Alcuni borgesi arricchiti aspiravano al governo del Comune e perciò mandavano i figli a Catania per addottorarsi come avvocati o medici.
In questa seconda metà del cinquecento si ebbe una maggiore concentrazione di costruzioni: gli edifici si trasferirono verso il centro o nei pressi di esso. I frati agostiniani trasferirono la loro chiesa e il convento di antichissima origine (1274) dalla contrada della Sciarotta al piano tra la chiesa di San Vito e la chiesa di San Rocco, proprio nelle case del generoso cavaliere napoletano Don Monciello Arcamone.
Le monache di Santa Lucia eressero nel 1596 il loro monastero nuovo nelle case di Don Cesare Garofano, nel piano detto delle Rose, all'inizio settentrionale della contrada “Vigna di Corte “.
Poco dopo (1602) veniva fondato il monastero di Santa Chiara nelle case di Tommaso e Agata La Bruna e dopo qualche anno (1608) venivano a stabilirsi ad Adernò i Cappuccini.
In Adernò si era costituita una potente classe nobiliare che si permetteva il lusso di tenere schiavi, che dai padroni erano trattati come animali da mercato.
A questo riguardo fra gli altri documenti è utile ricordare qualche brano del testamento del nobile Cesare Sicilò , agli atti del notaio Giovanni Filippo Muscro (10-5-1583) “parimenti volle e vuole il detto testatore che la detta schiava Agrippina dopo la di lui morte debba andare in potere del detto signore Tommaso e starvi fino a che partorisca ed il frutto del parto si debba vendere al maggior offerente e anche essa sia venduta al maggiore compratore con la riserva che volendo il signor Tommaso La Bruna detta schiava, abbia il diritto di prelazione per il medesimo presso, con il quale si debbano acquistare le rendite da impiegare per le cause di cui sopra”
Sotto il principato di Don Antonio Aragona e Moncada (1592-1631) e del di lui figlio Luigi Guglielmo, Adernò era tutto un immenso cantiere per fabbriche, soprattutto ecclesiastiche: mastri fabbricatosi, perriatori adornesi, catanesi, acesi venivano attirati da salari per quei tempi alti, specialmente riguardo al settore agricolo: mentre una giornata di circa dodici ore di un contadino era retribuita al massimo con due tarì, un buon muratore poteva percepire fino a tre volte questo salario.
I lavori fervevano a Santa Lucia (1590), alla Matrice (1590) a Gesù e Maria (1640), a San Pietro, al Salvatore, a San Leonardo, a Santa Chiara, al Monte di Pietà, a Sant'Agostino, a San Sebastiano, dove si costruiva la cappella del Cristo alla Colonna, insomma o si costruiva di bel nuovo o si ricostruiva il già costruito.
In questo periodo le più potenti famiglie si costruiscono abitazioni più dignitose ed imponenti come gli Spitaleri di Muglia nel quartiere del “gurgo “ erroneamente chiamato borgo, i Ciancio nel quartiere di San Pietro e in quello del Salvatore, i Guzzardi e i Campo nel quartiere della Piazza.
Questa ripresa edilizia ebbe una pesante battuta d'arresto in seguito al terremoto del 1693.
L'attività edilizia riprese verso la metà del settecento e, sospesa dal terremoto del 1818-1820, fu ancora ripresa con opere di riparazioni e nuovi prospetti delle chiese e delle case fino ai primi del sec. XX, rare furono le nuove fondazioni religiose.
Certo alle costruzioni di carattere sacro non fu pari l'edilizia abitativa, che per circa l'ottanta per cento riguardava casette ad una stanza e stalle, mentre pochi erano i palazzi, residenza delle famiglie più ricche.
Verso la prima metà del seicento, in seguito alle franchigie offerte dai conti Antonio e Luigi Moncada, la popolazione e la produzione agricola crebbero, ma i vantaggi andarono ai padroni e alle poche famiglie dominanti, di cui cominciarono a far parte alcuni borghesi arricchiti o mastri muratori, impresari di grandi fabbriche.
Comunque gli agiati erano appena un sesto circa dell'intera popolazione, costituita in maggioranza da giornalieri detti anche bracciali e affannaturi, che, con salari che si aggiravano in media su un tari e dieci grani al giorno per gli adulti e da quindici a cinque grani per i picciotti e i bambini, stentavano miseramente la vita, morendo molto spesso alla età media di trenta anni per fame o epidemia.
Verso il 1640, Adernò contava circa 5933 abitanti ed era il centro amministrativo ed economico della contea in cui si trovavano anche i villaggi di Biancavilla e di Centorbi col nome di “terre “.
Adernò in questo periodo comprò, forse a rate, il titolo di “civitas vetustissima et opulentissima” ed aveva l'onore di tenere lo stendardo del “terzo di San Filippo della milizia urbana”, istituita dal vicerè Giovanni De La Vega nel 1548 e riformata dal conte di Olivares nel 1595.
Insieme con Adernò facevano parte del terzo di San Filippo: Castro-Giovanni, Biancavilla, Centorbi e San Filippo di Argirò, dove risiedeva il “sergente maggiore “.
Questi comuni insieme erano tenuti a fornire 143 cavalieri e 865 fanti, armati a proprie spese e mantenuti dai rispettivi Comuni.
Ai fini militari il paese di Adernò era diviso in due zone: la prima comprendeva il quartiere della Catena, metà del quartiere di San Pietro e il quartiere della Piazza sotto il capitano di quartiere barone Michele Lanza; la seconda zona comprendeva il quartiere del Salvatore e metà del quartiere di San Pietro sotto un capitano della famiglia Ciancio.
Il sergente, cioè il capo della milizia adornese, era il barone Spitaleri che aveva il suo palazzo al Borgo.
Dal punto di vista amministrativo il Comune comprendeva quattro quartieri che erano in ordine di grandezza: il quartiere della Catena, il quartiere del Salvatore, il quartiere di San Pietro Apostolo ed il quartiere del la Piazza.
Dai ruoli della milizia di cavallo e di piede possiamo dedurre quali erano nel seicento le famiglie dominanti, poiché l'armamento era a spese dei più ricchi.
Da un ruolo del 1652 apprendiamo che i soldati da cavallo erano i seguenti: don Vito Guzzardi fu Nicolò col grado di alfiere, don Nunzio Guzzardo, don Antonio Ciancio, un cavaliere pagato da una donna Barbara Ventimiglia, don Antonio Carasto, don Francesco Cocina, don Pietro Reale, don Nunzio Bonanno, don Vincenzo Reale, don Giuseppe Marullo, don Francesco Irmanà.
Come cavalieri di riserva erano segnati: Giovanni Filippo Museo, don Pietro Lo Curlo, don Santo Cocina, don Antonio Zerbo.
Inoltre nello stesso ruolo sono elencati altri ottantadue soldati da piede tra quelli di servizio e quelli di riserva.
Nello stesso periodo Biancavilla forniva tre cavalieri e nove pedoni, mentre Centorbi forniva solo quattro pedoni.
I ruoli venivano periodicamente aggiornati o per morte degli obbligati o perché gli obbligati erano scaduti di censo.
Gli obbligati potevano farsi sostituire da un soldato a pagamento, quando il senato di Catania dava l'ordine di “abbasciare alle marine” in caso di minaccia di sbarchi barbareschi.
In questo periodo la tassazione era in massima parte indiretta e, mediante le gabelle, gravava su tutti i generi di prima necessità e di largo consumo, accrescendo la miseria delle classi più povere, mentre gli ecclesiastici erano esenti e i signori evadevano il fisco in gran parte.
Le gabelle, per quanto fossero pesanti e mantenessero in uno stato di continua miseria la maggioranza delle persone, non riuscivano quasi mai a coprire le tasse dovute al re o al padrone di Adernò.
Queste somme in gran parte andavano a finire nelle tasche di grossi prestatori o anticipatori di gabelle sotto forma di interessi assai gravosi.
Comunque in questo periodo il Comune riusciva quasi a pareggiare il bilancio, mediante la imposizione delle seguenti gabelle: 1) gabella del macino che gravava nella misura di grani 14 per ogni tumtilo di grano portato al mulino. Essa nell'anno 1657-1658 rendeva di netto onze 1218 tarì 23 grani 6 e piccoli 3.
Nello stesso anno la gabella della estrazione dei cercali e del bestiame rendeva onze 411 e tarì 6.
La gabella della estrazione della seta rendeva onze 100 e tarì 18.
La gabella della vendita del vino al minuto rendeva onze 91 tarì 5 e grani 8.
La gabella della estrazione del frumento rendeva onze 39 e tarì 12.
La gabella del maldinaro rendeva onze 41 e tarì 9.
La gabella del vino imbottato rendeva onze 64 tarì 14 e grani 8.
La gabella dell'introito dell'olio rendeva onze 39 tarì 15 grano 1.
Inoltre vi era la gabella dello zagato o del pizzicagnolo, la gabella della menzania, la gabella della foglia, la gabella della baglia, la gabella dei pesi e misure o acatapania, la gabella del consumo, la gabella del garozzone, la gabella del fumo e la gabella del vento.
Il 1657-58 rappresenta uno dei migliori anni del secolo XVII, infatti verso la fine di esso comincia un periodo di grave decadenza demografica ed economica, che avrà il suo punto più basso verso l'anno 1719-1720. Una ripresa si avrà soltanto nella seconda metà del sec. XVIII. Per fare un esempio, nell’anno 1717-1718 si ebbe un introito complessivo di onze 967 tarì 10 e grani 12 con esito di onze 1377 tarì e grani 6 e un deficit di onze 380tarì 6 e grani 13.
Dall'andamento degli introiti siamo informati della decadenza di Adernò, che nel giro di circa un sessantennio perdeva quasi un terzo della sua popolazione e all'interno dell'abitato si creavano grandi spazi di povere case rovinate ridotte ad immondizzai e gravate da pesanti censi.
Eppure in Adernò c'erano alcune famiglie che possedevano enormi rendite e proprietà. L'abuso sopra i poveri era cosa normale e il ricatto per fame era frequente: da alcuni testamenti di questo periodo, in cui i testatori lasciavano determinate somme per maritaggi o monacazione di fanciulle, venivano escluse dalla assegnazione le serve di casa, perché non vergini e la verginità era un requisito per godere del lascito!
I figli neonati dei miserabili o di relazioni illegittime per molti decenni vennero abbandonati nelle vie in pasto ai cani, come apprendiamo dalle carte di fondazione della confraternita dei Bianchi.
Allora le fortune si facevano e si disfacevano con grande rapidità: l'usura e la speculazione erano pratiche normali.
Carissimo era anche il costo dei sacramenti, specialmente il matrimonio e l'estrema unzione con conseguente sepoltura dentro le chiese, che traevano enormi introiti, di cui un quarto lo consegnavano al Vescovo (quarta mortuaria).
Alcune classi di cittadini come i nobili, i professionisti, i ricchi artigiani e i ricchi contadini si organizzavano in confraternita per evitare la pesante tassa della sepoltura.
Le famiglie più potenti, cercavano di tenere unito il loro patrimonio, per quanto era possibile riservandolo a uno o a pochissimi figli, mentre gli altri volenti o nolenti fin dalla tenera età erano rinchiusi in conventi o monasteri.
Più pesante era la condizione delle fanciulle, che venivano rinchiuse nei monasteri di Santa Chiara e di Santa Lucia per appagare l'egoismo di padri e fratelli, che non volevano disperdere la roba con le doti alle figlie e alle sorelle.
Queste povere donne, specialmente nel monastero di Santa Lucia erano inquiete, intolleranti della clausura, intriganti a favore delle proprie famiglie, come possiamo apprendere dalla relazione che il vescovo di Catania don Ottavio Branciforte inviò al Papa. Urbano VIII per illustrare i problemi della sua diocesi negli anni 1640-1646.
Nella seconda relazione è detto: “in Adrano vi sono due case di monache: una è soggetta al vescovo e l’altra ai frati di San Francesco; in questo (di Santa Chiara) per ciò che concerne la clausura è regolata con certezza la possibilità dei colloqui, ma nell’altro (monastero di Santa Lucia) non vi era alcuna vita in comune e a sentire solo parlarne le orecchie delle monache divenivano sorde e i cappellani non avevano alcuna speranza di riuscita.
(Ma io) Finalmente con la persuasione, col regolamento delle spese, con gli scrupoli di coscienza sono riuscito a piegare gli animi delle monache, perché almeno mantenessero la comunità nei refettori e nell’infermeria.
Ordinai anche di chiudere con grate di ferro tutte le finestre che davano sulla via. Entro la stessa chiesa, vicino alla porta, vi erano delle finestre per cui le monache guardavano chi entrava e chi usciva; io ordinai che le finestre venissero spostate vicino all’altare.
Nel monastedo di Santa Lucia vi stavano 50 monache, nel monastero di Santa Chiara 40 …”
Affamare il popolo e creare carestie artificiose era allora normale.
Così erano anche frequenti le rivolte dei poveri per mancanza di pane come quella di Adernò nel 1667.
Nel 1887, vi fu una rivolta, da parte dei poveri per mancanza di pane, fu repressa dal capitano di giustizia Antonio Spitaleri junior e dal giudice criminale don Gaetano Guzzardo.