Periodo Aragonese
Dopo i disastri del periodo svevo ed angioino (1 195-1282) per Adernò si ebbe un periodo di respiro in coincidenza col breve regno di Pietro III di Aragona.
Egli, a nome della moglie Costanza, veniva, su invito dei nobili siciliani, a prendere possesso del Regno per breve tempo (1266-1282) occupato da Carlo I di Angiò che l'aveva ricevuto in feudo dalla chiesa di Roma.
Tutto il periodo Svevo, il periodo Angioino ed il periodo Aragonese almeno fino a Federico IV detto il Semplice o l'Imbecille (1355-1377), fu un graduale scivolamento verso l'anarchia e la prepotenza disgregatrice della nobiltà, che, intesa a togliere ogni potere ai sovrani per accrescere al massimo il proprio, impedì ogni evoluzione della società siciliana. Nonostante non mancassero ricchi esponenti della borghesia commerciale e forense, questa non giunse mai ad avere una coscienza di classe e una volontà autonoma in contrapposizione colla nobiltà.
I borghesi cercarono e sognarono di raggiungere lo status di nobili, mediante una gestione municipale poco corretta, mediante matrimoni con appartenenti alla classe dei nobili e mediante l'acquisto di terre e di titoli.
Il popolo era profondamente inconsapevole ed incapace di una sua funzione politica: la classe dei “mastri artigiani “ si fece classe di ordine, in difesa dello statu quo e stette quasi sempre dalla parte dei signori contro i piccoli contadini e braccianti, guardati con profondo disprezzo.
Se si fa eccezione dell'intraprendente borghesia mercantile di Messina e di Trapani, il commercio in Sicilia era nelle mani di gruppi stranieri con in testa i “Catalani” che godevano di enormi privilegi. Essi con i loro prestiti tenevano in pugno la nobiltà e la stessa dinastia, cui non bastavano mai i quattrini estorti in tutti i modi possibili alla classe produttrice, che una capillare e multiforme tassazione teneva nello stato continuo di sottoalimentazione, di umiliazione, di morte precoce per epidemie, favorite dalla denutrizione.
Pietro III venne invocato come un liberatore, ma anch'egli, fin dal suo primo apparire, non cessò di chiedere, ai popoli stremati, contribuzioni in vettovaglie, in uomini ed in denaro col pretesto di dovere espellere dall'isola gli Angioini.
Anche il povero casale di Adernò ebbe la sua parte di sofferenze e di stenti.
Il 10-3-1282 il re ordinava alle “università” della Sicilia orientale la leva di armigeri da inviare sotto la guida di Giovanni Chelamidi da Troina, per la custodia della via Taormina-Messina, per cui passavano i convogli di vettovaglie forzosamente apprestate dai paesi della Sicilia nord-orientale. L’esercitoaragonese si concentrava aRandazzo.
Anche Adernò, con non più di 400 abitanti dovette inviare a proprie spese 10 arcieri ed una certa quantità di grano e di animali da carne.
In data 7-1-1283 il re, vinto ormai Carlo d'Angiò, si apprestava a sistemare la recente conquista e confermava per Adernò la elezione annuale dei giudici: Nicolò La Morella, Guidone, Summamonte e Baldo Di Fiore, mentre nominava un proprio baiulo o capitano e un proprio castellano con poteri rispettivamente giudiziari, amministrativi e militari.
Da Messina in data 27-1-1283 il re scriveva al baiulo, ai giudici e agli abitanti di Adernò di mandargli o 10 arcieri o 10 fanti armati a proprie spese.
Ancora da Messina il 9-2-1283, il re scriveva agli amministratori di Paternò, di Adernò, di Aci, di Mascali, di Castiglione e di Linguaglossa di combattere con più decisione i ladri di strada, che rovinavano il commercio e che trovavano sicuro asilo tra i boschi dell'Etna.
Il re affermava: “Sappiamo che tutti i delitti dispiacciono alla nostra Maestà e noi siamo tenuti a usare ogni cura per la loro repressione. Specialmente ci sembra esacrando il ladroneggio di strada, per cui, violando lo stato pacifico del nostro regno, vediamo i mercanti ed i semplici cittadini soggetti non solo ad essere spogliati dei loro beni, ma anche a rischiare la propria vita.
Spesso tali delitti rimangono impuniti e i delinquenti diventano recidivi, poiché su nascondono nei boschi dell’Etna e di lì balzano sui passanti, li assalgono e talora li uccidono: perciò vi ordiniamo fermamente in nome della vostra lealtà che a richiesta di Andrea da Procida, rettore della Chiesa di Catania, cui abbiamo affidato il compito della punizione dei ladri, forniate squadre di arcieri o di altri armigeri necessari e bastevoli per la ricerca e l’arresto di tali malfattori”.
Dai testi citati, cogliamo il casale di Adernò nel momento del trapasso del potere al signore aragonese, che non ha avuto il tempo di beneficiare i suoi cavalieri con la infeudazione di terre.
Adernò infatti ci appare terra del demanio reale col baiulo, i giudici e i giurati.
In questa condizione però non stette molto e presto diventò feudo di qualche cavaliere catalano, fra quelli di cui si parla in una lettera del re Alfonso di Aragona, figlio di Pietro, datata Saragozza 2-5-1283.
Con essa si invitavano i grandi del regno ad unirsi al re nell'imminente duello con Carlo d'Angiò, che di fatto non ebbe luogo.
Fra questi signori sono nominati i Santapace, i Cabrera, i Moncada, i Peralta, gli Alagona, i Borgia, i Luna, i cui discendenti saranno signori della Sicilia.
Era consuetudine dei re aragonesi all'atto dell'incoronazione creare cavalieri, baroni o conti i loro più stretti collaboratori, concedendo loro uno o più feudi.
Pare che il Re Giacomo, figlio di Pietro, abbia concesso la terra e il territorio di Adernò ad un tale suo funzionario, Luca Pellegrino, togliendolo a Garzia de Linguida.
Di questo Luca sappiamo solo che lasciò un'unica figlia di nome Margherita, che andò sposa ad un certo Antonio Sclafani, cittadino di Palermo con la dote di Adernò e forse anche di Centuripe.
La famiglia Sclafani era di antica nobiltà, forse normanna.
Del 1213 si ricorda un frate Nivaldo Sclafani, abate di S. Maria di Roccadia, a cui l'imperatore Federico I donò il terreno, i vigneti, i giardini e gli oliveti che erano intorno a quel monastero.
Questo Nivaldo fu figlio di Goffredo, signore di Sclafani, e di Altavilla de Secretis.
Il più potente e rinomato degli Sclafani fu certamente Matteo (1290-1354), figlio di Giovanni e di Margherita Pellegrino. Fu costui uomo ricchissimo, maestro razionale in Palermo al tempo di Federico Il di Aragona (1269-1337), che lo cinse e nominò primo conte di Adernò e di Centorbe, all'atto della sua incoronazione (1296).
Giovanni Luca Barbieri, segretario di Ferdinando il Cattolico (1479-1515), nella verifica che fece dei titoli feudali, ritenne che Matteo avesse occupato con la forza la contea, ma da documenti trovati posteriormente, sembra che l'investitura di Matteo sia stata regolare anche se contestata da qualcuno.
Questo Matteo fu un piccolo principe machiavellico ante litteram; infatti egli “latino” parteggiò per i catalani. Fu pirata, mercante di schiavi, devoto del monastero di S. Maria di Licodia a cui, fra l'altro, donò nove salme di frumento annuali.
In quel periodo turbolento delle lotte feroci tra le fazioni della nobiltà catalana e di quella latina, seppe barcamenarsi e rimase sempre vincente, facendosi signore di Ciminna, di Chiusa, di Sclafani, di Adernò e di Centorbi e disponendo come padrone assoluto dei suoi feudi.
Infatti il 7-1-1311 regalò il feudo centuripino di “Modulum campane” a suo cugino Lancia di Grifo; vendette inoltre il feudo centuripino di “Meliventre “ il 3-XII-1351 alla signora Desiata Bonsuli per onze 600.
Da un elenco di feudatari del 1348, egli appare tra i più ricchi signori della Sicilia, con una rendita di 650 onze annuali e con trentadue feudi e mezzo.
Sposò come prima moglie Bartolomea Incisa, da cui ebbe una figlia di nome Margherita, che diede in sposa a Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Augusta (1336), come seconda moglie sposò Beatrice de Calvellis, da cui ebbe una figlia di nome Eloisa che diede in sposa a Guglielmo Peralta figlio di Raimondo, conte di Caltabellotta.
Matteo abitava in Palermo, dove aveva un gran palazzo costruito in un solo anno (1330) con giardini, cappella, e acqua corrente.
Insieme con gli Alagona, i Moncada, gli Abbate, i Valguarnera, i Peralta e altri faceva parte del partito dei catalani.
Nel 1299 la sua “terra” di Adernò, povera e indifesa, fu occupata da Roberto d'Angiò e da Ruggero di Lauria che vi si fermarono a godersi le deliziose acque sorgive.
Nel 1328 Matteo era dei capitani di Pietro II (1337-1342) insieme con Gìovanni Chiaramonte, Blasco Alagona, Matteo Palizi, Ruggero Passaneto, Pietro Lancia e Rosso dei Rossi.
Nel 1348 Adernò cadde nelle mani dei latini e Nicolò d'Aquino, capitano di Matteo, fu ucciso da Ruggero Tedesco, pare con grande sollievo dei terrazzani, che però in quell'anno subirono il flagello del saccheggio e della peste nera, essa portò via quasi la metà della sua già scarsa popolazione (circa 200 morti su 500 abitanti).
La torre di Adernò, che sorgeva sulla linea del Simeto, fu oggetto di conquiste e riconquiste durante le quali venivano a Randazzo i soccorsi e anche i capitani: come quell'Antonio Lancia de Calvellis, cavaliere, capitano, castellano e percettore di imposte e quel Gerardo Bonsuli, anch'egli cavaliere, capitano, castellano e percettore di imposte.
Nel 1352 Matteo Sclafani sfuggì ad un mortale agguato tesogli dai Chiaramonte a Palermo e sopravvisse ancora due anni, lasciando in un mare di guai Adernò, a causa della successione variamente delineata in tre successivi testamenti (6VIII-1333, 28-V-1348, 6-1X-1354).
La contesa si accentrò specialmente intorno alla contea di Adernò e Centorbi tra i Moncada e i Peralta e soltanto dopo 43 anni si concluse con tre atti di contentamento, con cui i Peralta rinunziavano ai loro diritti a favore di Guglielmo Raimondo III Moncada, il quale lasciò al fratellastro Antonio (1398-1414) la contea di Adernò e Centorbi.
Pieni di lutti, di pestilenze, di massacri e di fame furono per la Sicilia e per Adernò i regni di Ludovico (1342-1355), di Federico IV detto il Semplice o l'Imbecille (1355-1377) e il periodo della minorità di sua figlia Maria (1377-1392).
Feroci capi delle bande latine, quali Ruggero Tedesco e Gilio Statio mettevano periodicamente a sacco il territorio di Adernò, bruciando le messi, tagliando gli alberi, sradicando le viti, violentando le donne, sventrando le incinte, incendiando pagliai e casotte.
I poveri abitanti furono costretti dai loro signori a lasciare i campi e a diventare masnadicri per sopravvivere.
Per colmo di disgrazia Adernò, come tutte le altre terre di Sicilia, rimase per lunghissimi anni sotto la scomunica e interdetto pontificio, per liberarsi dai quali negli anni 1372, 1375 dovette comprare a fior di quattrini il perdono.
Infatti i Papi Urbano X e Gregorio XI per fare soldi pensarono di togliere l'interdetto alle città e terre di Sicilia in cambio di determinate somme. A tal fine organizzarono centri di raccolta (collettorie) e a capo di quella della Sicilia misero un certo Beltrando du Mazel (1373-1375).
Il papa Gregorio XI pretendeva il pagamento di un tarì di argento per tutti i maschi da dieci anni in su, pretesa allora enorme, per cui il re Federico IV (12-V-1374), in difesa del suo Popolo, venne ad un accordo col collettore della tassa per ripartirla in ragione dei fuochi o famiglie ed in ragione delle sostanze di ciascuna famiglia. Erano esclusi dal pagamento, i saraceni, i giudei e i miserabili, bisognò pagare un tarì per famiglia.
Il conto del Mazel fornisce la cifra dei fuochi imponibili delle città e terre che pagavano, ciò ha permesso al Beloch di fare delle deduzioni sulla popolazione dell'isola in quegli anni che sarebbe ascesa a non più di mezzo milione di abitanti.
Purtroppo Adernò non si trova fra i conti del Mazel, ma considerando che Paternò allora aveva 830 fuochi cioè circa 3320 abitanti e che Adernò era almeno sei volte più piccola di Paternò, come si deduce da alcuni diplomi di Pietro d'Aragona, si può con una certa approssimazione e con molta cautela fare ascendere la popolazione di Adernò a circa 500 anime.
Federico IV morendo aveva lasciato in minore età una figlia di nome Maria, che fu contesa tra i signori di Sicilia per darla in moglie a chi meglio gli conveniva.
L'audace Guglielmo Raimondo Moncada nel 1378 rapì dal castello Ursino la fanciulla, ivi custodita per conto di Artale Alagona.
Maria fu condotta, dopo varie e drammatiche vicende, in Aragona e data in moglie al futuro re Martino I il giovane (1392-1409), mentre la Sicilia era governata da quattro signori col nome di vicari e il papa Bonifacio IX incitava a respingere Martino e Maria.
Il re, sbarcato a Trapani, usando fermezza e astuzia riuscì a sottomettere tutti i baroni di Sicilia, ma ordinò una verifica dei loro feudi.
Cercò anche di richiamare al demanio regio molte città terre e feudi che erano state usurpate dai nobili, come ad esempio Paternò.
Anche i Moncada si ribellarono a lui, ma infine, dopo varie vicende, il 15-X-1398 la contea di Adernò e Centorbi fu riconfermata ad Antonio Moncada, che con testamento agli atti del notaio Nicola Baratta di Adernò (17-V-1414), lasciò la contea al nipote Giovanni Raimondo che, come aveva fatto lo zio, continuò a parteggiare per la Regina Bianca di Navarra (1410-1416), insidiata dal vecchio ambizioso e innamorato conte Bernardo Cabrera.
La nuova fase di lotte tra i partigiani di Bianca e quelli di Cabrera si chiuse con una sentenza della commissione dei nevi riunita nel castello di Caspe in Spagna, che senza sentire gli interessati, cioè i Siciliani, assegnò la Sicilia a Ferdinando I di Castiglia detto il Giusto (1412-1416).
Egli si affrettò a mandare in Sicilia come vicerè (il primo) il figlio Giovanni.
Così ebbe termine il Regno indipendente di Sicilia, fondato dai Normanni.
A qeusto punto si ritiene utile riportare la parte principale del diploma di investitura del conte Antonio Moncada in versione italiana e a senso. Diceva Martino I: “… Allo stesso conte Antonio restituiamo la contea di Adernò con territorio di Centorbi e con i feudi, le tenute, le pertinenze sue e specialmente i feudi della Cavaler, Pupurtello, Gaudio, S. Todaro e alcune terre chiamate la Scarlatta…, concediamo la detta contea di Adernò al detto conte Antonio e ai suoi figli legittimi di ambedue i sessi, nati o da nascere … in mancanza di predetti figli legittimi, agli altri qualsivoglia eredi e successori del detto conte Antonio col detto territorio di Centorbi, coi diritti, le rendite, i frutti, i proventi, i vassalli, le fabbriche, i feudi, i monti, le pianure, le acque, gli acquedotti, i corsi d’acqua, le pescherie, i luoghi di caccia, i mulini, i salti dei mulini, i pascoli, gli erbaggi, i terraggi, i territori, i confini, le tenute e i campi coltivati … sotto il debito e consueto servizio militare da prestarsi nello stesso conte in ragione di un milite armato ogni venti onze di rendita annuale della predetta contea …”.
In pratica il conte era il padrone dell'intero territorio della contea, nella quale, tramite il suo secreto o governatore, impose su tutte le terre laiche e religiose un censo perpetuo irredimibile che si riscosse sino a tutto il '700 per circa 300 anni.
Non rimase alcun libero proprietario, i futuri terrieri saranno tutti censisti o compratori dei Moncada fino al sec. XVI e oltre. E lo stesso avvenne per i servizi commerciali e per le cariche civiche