Professore
Carmelo Salanitro
Scrittore e martire della libertà
Una delle figure più alte della storia adranita fu
il professore Carmelo Salanitro che sacrificò la sua
vita per quei sentimenti di pace, di democrazia e di
solidarietà, dei quali l’umanità, ancora oggi, ha
tanto bisogno.
Nacque in Adernò il 30 ottobre 1894 da una modesta
famiglia artigiana; il padre, barbiere, riuscì con
enormi sacrifici a mantenere agli studi i suoi
cinque figli.
Frequentò le scuole elementari e il ginnasio in
Adernò, il liceo classico ad Acireale, dove nel 1912
conseguì la maturità con ottimi voti. Si laureò in
lettere classiche presso l’Università di Catania il
10 dicembre 1919 e insegnò latino e greco al liceo
classico di Adrano, Caltagirone ed Acireale.
Di formazione liberale e di educazione cristiana, il
giovane professore si occupò anche di politica e nel
1920 venne eletto, assieme a padre Bascetta,
consigliere provinciale, quale rappresentante del
Partito Popolare di adrano. La sua causa era quella
stessa della povera gente, dei lavoratori senza
libertà, di coloro che non traevano, come egli
affermava "dalle loro fatiche quel pane quotidiano
che tutti invochiamo la mattina, ma che molti,
ohimè, non hanno assaggiato la sera".
Salito il fascismo al potere, non rinunciò ai suoi
principi democratici cristiani, anche se nel 1929
abbandonò il Partito Popolare per protesta contro i
Patti Lateranensi. Sposò l’insegnante Geraci dalla
quale ebbe un figlio, Nicola.
Nell’ottobre del 1934, vinto il concorso a cattedra,
ritornò ad Acireale, come insegnante di latino e
greco al suo liceo "Gulli e Pennisi", dove rimase
fino al 1937.
Il professore Salanitro, alto di statura, imponente,
di poche parole godeva di molta considerazione
nell’ambiente scolastico per la sua preparazione ed
era un insegnante intransigente perché sapeva che la
crescita civile e sociale dei giovani passava solo
attraverso una solida base culturale. "Col suo
insegnamento", dice il professore Cristoforo
Cosentino, suo allievo e oggi Ordinario di Storia
del Diritto Romano e Preside della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Catania, "ci fece
comprendere che la vita non vale nulla senza
libertà, che lo studio senza un ideale non serve,
che la scuola deve essere un luogo nel quale,
nobilmente e disinteressatamente, si cerchi di
istillare nei cuori, oltre che la cultura, semi di
bontà e germi di schiettezza’’.
Nel 1937 si trasferì a Catania, dove insegnò al
Cutelli e di lì iniziarono le sue pene politiche e
antifascista.
Negli anni 1939-40,sconvolto dalla catastrofe della
II guerra mondiale, porto avanti da solo una
campagna propagandistica contro il nazismo e il
fascismo, lasciando volantini nei locali pubblici,
nelle cassette delle lettere, dentro lo stesso
istituto e persino nei banchi degli alunni. In due
volantini dattiloscritti si leggeva: ’’Catania 1940:
Dio benedica le armi dei Belgi e degli Olandesi, che
combattono in difesa della loro patria invasa’’;
’’Viva l’Italia, viva la libertà’’.
Il 15 novembre del 1940 venne arrestato dall’O.V.R.A.,
processato e condannato a 18 anni di reclusione e
all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Fu
rinchiuso nel carcere di Civitavecchia e
successivamente in quello di Sulmona negli Abruzzi.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il
Salanitro fu consegnato dalle autorità fasciste ai
Tedeschi e deportato, prima in Germania, a Dachau,
poi in Austria nel campo trincerato di S. Valentino
e , infine, in quello di Mauthausen, dove venne
ucciso, assieme a tanti altri martiri, nella camera
a gas nella notte tra il 23 e 24 aprile 1945, la
vigilia della liberazione dell'Italia.
Un suo compagno di sventura Nino Micheli,
sopravvissuto al massacro di Mauthausen così
descrive nel libro "I vivi e i morti" le ultime
giornate di vita del professore Salanitro: "
Sembrava un vecchio e non lo era. Per una crudele
malvagità gli avevano portato via gli occhiali: non
ci vedeva se non da vicino... Era coltissimo... Era
un uomo di fede, nitido come un diamante, forte
moralmente come una roccia. Quando nel 1940 lo
arrestarono.. ebbe modo di provare la potenza del
suo carattere, la sua dirittura morale e di
suscitare ammirazione e stima fra i detenuti e i
guardiani. Chiamava questo tribolato periodo tappa
di un calvario che i posteri non conosceranno mai.
Una cosa soltanto gli bruciava: non riuscire a
tornare e non poter così obbligare il suo delatore
ad ascoltare, in un'aula del suo Liceo, fitta di
studenti, una sua lezione sull'onore e sulla viltà".
Durante questi terribili anni, il nostro
concittadino soffrì molto di nostalgia per la sua
terra, ma sopportò le sofferenze con grande
coraggio. Dal carcere di Civitavecchia (27 febbraio
1943) così scriveva alla madre: Ho sempre cercato di
vivere in pace con me stesso, motivi di gioia e di
contentezza ho sempre attinto dall'interno della
coscienza. Attraverso il grido, l'appello e il mondo
della Coscienza, parmi che si rivela ed esprima la
voce potente del Signore. Seguire i suoi chiari
impulsi obbedire ai suoi inderogabili precetti ho
sempre ritenuto stretto dovere dell'individuo che
non vuole adagiarsi in una inerzia morale che è
peggio della morte... Immensa la virtù del tempo,
lenitrice di dolori e riparatrice di torti. Del
resto, che cosa sono le nostre pene individuali
nell'infinito quadro dei dolori e dei travagli con
cui la gente di oggi costruisce per quella di domani
un divenire un avvenire migliore e più giusto?"
L'alto livello culturale del professore Salanitro si
evidenzia nei suoi due saggi che egli scrisse:
"omerica" con il sottotitolo di "Ideale di pace e
sentimento del dolore nell'iliade (pubblicato nel
1929 in Adrano) e "Attorno alle Georgiche
virgiliane" (pubblicato a Caltagirone nel 1933). Da
questi due scritti emerge la figura di uno studioso
coltissimo che con prosa chiara, elegante e a tratti
poetica, esalta i valori della giustizia sociale,
del lavoro , della pace e della libertà contro ogni
guerra e forma di dittatura.
Nel 1947 gli Adraniti gli dedicarono un monumento
nella Villa Comunale.
Ci piace concludere questo breve profilo del nostro
illustre concittadino con il suo pensiero ancora
sulla scuola che si inserisce in quell'insieme di
valori per i quali egli immolò la vita: "l'unica e
vera istituzione nel mondo è stata sempre quella
della Scuola. In ogni tempo, la Scuola, libera e
indipendente, non asservita ad interessi e scopi
particolari d'individui e dl gruppi, nè appannata da
falsi preconcetti o sviata da pretese rivelazioni,
ha sollevato l'animo da infondati terrori e lo ha
liberato da fallaci illusioni, ha rimosso e
abbattuto artificiosa e dannose barriere. E dalla
Scuola sono partite e nella Scuola si sono concluse
le Rivoluzioni..., le autentiche e vere e grandi
Rivoluzioni".
Ecco riportate qui di seguito alcune lettere di
Carmelo Salanitro alla famiglia:
Alla Sorella Maria
Civitavecchia 22.6.1941
Mia carissima Maria, ho ricevuto la lett. del 6-VI
(con acclusa quella di mia moglie) e la lett. del
13-VI ricevuta il 17, lo stesso giorno in cui era
arrivata: la distribuzione della vostra
corrispondenza, come vedi, avviene con grande
sollecitudine. Anche la mia, da quanto mi hai
scritto, impiega poco tempo. E ciò ci deve essere
motivo di conforto e di gioia. Con piacere ho letto
i pochi sgorbi dedicatimi da Nicola. Vi ringrazio
delle cure che avete per mio figlio.
E vi prego caldamente di continuare ad assisterlo e
a sorvegliarlo durante tutta la mia prigionia;
assisterlo nel suo sviluppo fisico, perché cresca
sano, robusto, e si abitui alla sobrietà e alla
pulitezza ed educarlo, ora che tocca quasi i sei
anni, bene, in modo da rafforzare nel suo tenero
animo quei germi innati ch'egli possiede in gran
copia. E avergli l'occhio in tutto, massime nel
periodo dell'estate: tanto più che sua madre, a
causa dei suoi studi, non può avere di lui tanta
cura, quanta ne occorrerebbe. Dato che Nino ha
assolutamente stabilito di venire a farmi visita, mi
manderete con lui due paia di mutande estive: dico
due paia, e non più; e preferibilmente di quelle più
corte e di già in uso. Di altra biancheria non ho
affatto bisogno, essendone fornito a sufficienza,
tra quella che avevo portato con me da Catania e
quella che ci vien data qui nel carcere. Direte a
Nino che alla sua venuta dovrà riportarsi il
soprabito, il vestito e altri effetti di vestiario
che sono depositati nel magazzino del carcere. Io ho
già fatto domanda per potere consegnare la roba di
cui sopra; ma è sempre bene che lui stesso chieda
alla Direzione del Carcere di poter riavere tuffi
quegli oggetti che non mi servono e che a restare in
magazzino si sciuperebbero. Ho piacere che
finalmente al Comune avete un'ottima persona quale è
il prof. Lo Curlo, di cui conservo eccellente
ricordo fin dalla mia fanciullezza. Mi fu compagno
di scuola in prima e seconda ginnasiale. E fin
d'allora si distingueva per ingegno, volontà e bontà
d'animo.
Anche io non avrei avuto discaro che il mio Nicola
fosse stato colto dal morbillo, male inevitabile
adesso che è piccolo. Infatti ti udivo dire che
quanto più presto viene, tanto è meglio. Ad ogni
modo speriamo che Iddio lo preservi fino a che io
sia lontano et ultra. Lo affido con tutto il mio
cuore alle Vostre cure materiali e spirituali. Da
Anna due giorni fa ricevei una carissima cartolina.
Io le avevo scritto giovedì scorso, 12; ma la mia
lettera non poteva averla ricevuta, quando ella si è
ricordata di me. A Nino direte che giovedì prossimo
non gli scriverò come al solito, poiché prevedo che
egli fra una dozzina di giorni non sarà più a
Catania. Ricambio saluti ai parenti e agli amici e a
quanti si ricordano di me. Coi più belli auguri ti
abbraccio e bacio con grandissimo affetto tuo
fratello.
Al Fratello Nino
C. Vecchia (Penitenziario) 14 Novembre 1942
Mio ottimo e diletto Nino, ò ricevuto la cartolina
cogli auguri per me di tutti i familiari raccolti a
Catania, le lettere 21-X e l-XI, la postale 23 u.s.
(ti prego ancora una volta di rallentare un po'
nello scrivermi). La notizia del fidanzamento
ufficiale di Maria mi ha riempito di giubilo, per
quello che tu mi hai scritto sul suo fidanzato, che
ha avuto la conferma degli entusiastici
apprezzamenti espressimi in loro recenti lettere da
Peppino e da Anna. Anche io avrei desiderio che gli
sponsali fossero celebrati ad ogni costo entro
l'anno e che pei relativi apparecchi esteriori non
si tenga affatto conto dello stato mio, ma tutto si
compia con la pompa consentita dalla situazione di
guerra. Mio carissimo Fratello, domani si compiono
due anni precisi da quando io, per l'avvenuto
arresto, sono rimasto privato della mia libertà
materiale; e, ciò nonostante, entro il mio animo non
si accoglie né vi alberga la benché minima traccia
di rancore, di fiele, di odio contro alcuno o contro
alcuna cosa. Da 2 anni fo saldo scudo di me stesso
ai colpi aspri che la sorte mi saetta, aspettando
con dignità e con calma che la maligna cessi alla
fine dall' infierire implacata contro di me; e se
talora ho avuto i miei momenti di abbandono e di
abbattimento, ognora mi sono sempre rialzato ed
eretto più fermo e più sereno di prima. Ho
moralmente sofferto e dolorato, indicibilmente; ma
sofferenze e dolori se hanno lacerato le più intime
fibre dell'essere mio, sono entrati a fare parte
indissolubile di quel patrimonio ideale della mia
coscienza, dove si accolgono i sogni, le
aspirazioni, le idealità accarezzati e coltivati con
purezza di mente e con disinteressata fede negli
anni della mia ardente adolescenza e gioventù
pugnace: patrimonio a cui attingo nuovo conforto e
vigore quando, fugacemente, l'amarezza ed il
rimpianto acerbo dei dì che furono, mi invade e
vince. Io ho lasciato ogni cosa diletta più
caramente per servirmi della parola di Dante; ma pur
traverso le sbarre mi è dato, seguendo idealmente il
breve lembo di cielo intravisto, sentirmi
strettamente congiunto, per l'aere infinito e
luminoso, colla Madre mia amata e col mio
infortunato piccolo Figlio, coi miei dolci Fratelli
e le Sorelle mie dilette, colla cara e fida terra
natia e con quella Scuola che colla famiglia si
divideva il dominio del mio cuore. Pur di qui, dove
ho dovuto provare come sa di sai lo pane altrui
(consentimi quest'altra reminiscenza di Dante), la
mente si aderge all'amore lei Bene e della Virtù,
infiniti ed eterni, e lo spirito rompendo i fragili
legami, spazia e naviga verso orizzonti senza
confini e lidi più vasti e accoglienti e sereni. E
non recrimino contro di me e contro questo mio cuore
fatto di impeti, di slanci, di entusiasmi
incontenibili, schivo di infingimenti ipocriti e di
seducenti allettamenti aperto e schietto e del Vero
non timido amico. E neppure mi lagno del mio duro
Destino: per esso ho sperimentato la incrollabile
intensa, grandezza e ricchezza di affetto dei miei
consanguinei verso di me, per esso ho avuta
dischiusa la sorgente amara, ma purificatrice del
dolore, per esso infine mi sento più vicino al
supremo Iddio, che ha occhi e cuore per tutti, ma
più benigni e più pietosi con quanti hanno sofferto
e penato. Non spedite pacchi fino a mio avviso: per
ora non ho bisogno di nulla. Al cugino Giovanni
scriverò appena potrò. Ringrazio Peppino Neri del
gradito e gentile suo pensiero. Saluti a Carmela e a
Turiddu. Baci ad Anna e ai bambini. A Te, i più
teneri abbracci con tutto il mio affetto, tuo
Carmelo.
Alla madre
Civitavecchia. 27-2-1943 (da! carcere penitenziario)
«Mia diletta Madre, ieri l'altro, giovedì, si
compirono due anni precisi dal processo e dalla
condanna mia e ciò nonostante, né il corpo è
fiaccato, né è franto l'animo, la mercè dell'Iddio
giusto e pietoso. Che cuore ho dovuto fare quando mi
sono assiso sul comune scanno, come pure durante la
fatale notte dal 15 al 16 dicembre, da Catania a
Roma. Ma anche tra il tumulto del maggiore dramma
del mio agitato vivere, nell'intimo del mio spirito
non ha cessato mai di splendere la luce di una calma
e di una mansuetudine, che è stata sempre la mia
forza e il mio conforto supremo. Non mi
rimproverare, se io ho potuto un momento obliare e
trascurare la famiglia, non mi rinfacciare certa
imprudenza e leggerezza per cui ho distrutto la mia
posizione e perduto il posto e rovinato il frutto di
decenni di sacrifici e di sforzi miei e dei miei
genitori. In ogni fase della mia esistenza, fin da
quando sedevo sui banchi della scuola e poi giovane
e quindi uomo, mai ho fatto degli interessi
materiali, o del denaro, e dello stato di vantaggi e
comodi esteriori acquistato, la bussola delle mie
azioni e dei miei sentimenti e pensieri. Ho sempre
cercato di vivere in pace con me stesso, motivi di
gioia o di contentezza ho sempre attinto
dall'interno della coscienza. Attraverso il grido e
l'appello e il monito della coscienza, parmi che si
riveli ed esprima la voce potente del Signore.
Seguire i suoi chiari impulsi, obbedire ai suoi
inderogabili precetti ho sempre ritenuto stretto
dovere dell'individuo che non vuole adagiarsi in una
inerzia morale che è peggiore della morte e non
diserta il suo posto e non rinuncia a soddisfare
certe insopprimibili esigenze della personalità e
dignità umana. Affaticarsi, travagliarsi senza cessa
e senza stanchezza, rialzarsi, quando si sia caduti:
ecco il ritmo del vivere, e mirare a qualcosa che
trascenda le forme e i limti materiali. Immensa è la
virtù del tempo, lenitrice di dolori e riparatrice
di torti. Del resto, che cosa sono le nostre pene
individuali nell'infinito quadro dei dolori e dei
travagli con cui la gente di oggi costruisce per
quella di domani un divenire e un avvenire migliore
e più giusto? Io non mi lagno, se un giorno,
ritornando alla vita esterna, dovrò ricominciare
tutto da capo, rifacendomi dalla base. E dovrò, per
campare, lavorare e sudare. A questo mi soccorrerà
l'esempio di mio Padre morto sulla breccia e quello
tuo. Tu mi desti la vita e, con enormi sacrifici
facendomi studiare, mi fornisti quella cultura che
è, specie in questo mio stato, la luce del mio
spirito e il cibo del cuore mio. E non posso neppure
ricompensarti; ma Iddio che tutto sa, a premio delle
tue virtù, ti concederà, spero, di ritrovare e
riavere il figlio disperso e smarrito, perché possa
in parte pagarti il suo grande debito...».
I