"Etna" - "Mongibello" - "A Muntagna"

Ritratto di un Vulcano 

 

La nostra “Montagna”, per antonomasia, ci riporta agli antichi nomi: “Etna” (dal greco Aitna” e dal latino “Aetna”) e “Mongibello” (da mons, latino e gebel, arabo ).

Dalla nostra Adrano, in certe mattine d’inverno, quando i venti di nord ovest spazzano le nuvole, la nostra Montagna si offre alla vista, nel biancore delle nevi, in tutta l’imponenza della sua mole e, per noi, tuttavia, con un’aria familiare, perché, nei millenni, essa ha sempre mescolato sulle sue pendici la minaccia più feroce con la fertile benevolenza.

Da sempre l’uomo di fronte a fenomeni così impetuosi ora fugge dal vulcano in preda al terrore, ora nuovamente lo assale, quasi lo raggira, infine lo feconda, ma sempre lo ama.

Così il “Mito” non poteva non essere legato a questo imponente monumento naturale grigioferro  o bianco a seconda la stagione, che svetta nell’azzurro cielo della Sicilia.

Se Omero collocava la residenza di Poliremo sulle pendici dell’Etna, Lucrezio, nel suo poema sulla natura, adduce come causa principale dei fenomeni i venti sotterranei che alimentano il fuoco interno alla Terra. Allo stesso modo Pietro Bembo si poneva degli antichi interrogativi: “Quali movimenti scuotono l’immensa mole della montagna, come nascono da corpi intense le fiamme, come sgorgano dalle profondità della terra? Forse queste cose risalgono ai tempi remotissimi in cui il corpo dell’universo venne diviso in mare, terre e astri del cielo”.

Nino Savarese ipotizza il primo nascere dell’Etna con una suggestiva immagine poetica: “Per molti notti il mare ribollì; a giorno lo specchio d’acqua era coperto da un tappeto di pesci morti e di alghe secche. Erano cominciate sul fondo marino le eruzioni che, a poco a poco, nei secoli, dovevano formare il gigantesco vulcano. Dal fondo la spiaggia, il getto della lava crebbe come un enorme ninfea. Poi la spiaggia stessa si sollevò, come un grembo troppo pieno e sbocciò alla superficie delle acque una corolla di fuoco”.

Mentre Carl Vincent così ci descrive l’Etna: “Coronato di bianchi riflessi, sotto la luna, con il mare calmo come un lago della Finlandia, creava un impressionante scenario per una tragedia antica, in cui il destino avanzava nascosto dall’ombra di una vela gonfiata dalla brezza del mare.”

Fra gli antichi autori che si sono occupati del Vulcano ricordiamo: Vigilo (Georgiche): “Quante volte vedemmo l’Etna traboccando da rutti craterici, uscire con onde di lava nei campi dei Ciclopi, e vomitare globi di fiamme e lava”.

Pindaro ci tramanda una descrizione della vita del vulcano: “L’Etna nevoso, colonna del cielo, /d’acuto gelo perenne nutrice;/ mugghiano dai suoi recessi/ fonti purissime di orrido fuoco,/ fiumi nel giorno riversano/ corrente fulva di fumo,/ e nella notte rotola/ la rossa fiamma,/ rocce portando alla distesa/ profonda del mar con fragor”.

Ovidio (Metamorfosi) parla del gigantesco Tifeo che giace sotto il vulcano e: “ vomita fiamme dalla ràbida bocca, sforzandosi di togliersi la terra di dosso e di scrollarsi la città e le immense montagne dal corpo”.

Certamente non si possono citare quanti, nel tempo, hanno parlato e descritto l’Etna, ma mi piace chiudere con gli esaltanti versi, quasi un inno, di Ettore Romagnoli: “Peregrino del mare, se da lungi tra i flutti vedi brillare il fuoco dell’Etna, i lini tutti spalanca al vento e corri! Quivi è l’eterno riso: approda a queste spiagge, è questo il Paradiso.

 

                                                                                                          Angelo Abbadessa

 

del Prof. Angelo Abbadessa

Prof. Angelo Abbadessa