Simeto - 2
Simeto - 1 | Simeto - 2 | Simeto -3 | Simeto - 4 | Simeto -5 | Simeto - 6 |
La ninfa
Talia o Etna-Talia e i Gemelli Palici
Secondo la mitologia, il
dio Adrano avrebbe rapito e fatta sua sposa una
ninfa che viveva nel Simeto e che aveva il nome di
Talia, secondo alcuni studiosi, o di Etna-Talia,
secondo altri per i quali sarebbe stata la figlia di
Vulcano e nulla avrebbe avuto a che vedere con il
fiume.
Questa ninfa genera due
gemelli, ma, temendo che la dea Giunone possa
pensare che i due neonati siano frutto di una delle
solite avventure amorose del marito, Giove, e che,
adirata, possa vendicarsi su i due innioccenti,
prega
Il ruolo della ninfa
Talia sembra esaurirsi con la nascita dei Palici,
perché d ilei non abbiamo ulteriori notizie, né,
tantomeno, raffigurazioni. Gli dei Palici, al
contrario, saranno venerati al pari, se non di più,
del loro padre, il dio Adrano.
Le sorgenti dei Palici
sarebbero scaturite sulle sponde del fiume Simeto;
quella di destra era detta “chiara”, per la
limpidezza cristallina delle sue copiosissime acque,
quella di sinistra “nera”, non già a causa di
impurità presenti nelle acque, bensì perché il suo
gorgo appariva nero a causa della profondità e dalla
nauta lavica del suo letto.
E’ stato tramandato che,
davanti alle suddette fonti, avessero luogo delle
cerimonie di purificazione, simili ai “giudizi di
Dio” del Medioevo. Coloro che erano stati accusati
di adulterio o furto dovevano giurare la loro
innocenza davanti alle fonti e il loro
giuramento veniva inciso su delle tavolette che
venivano buttate nell’acqua; se la tavoletta
galleggiava, l’accusato veniva dichiarato innocente
e lasciato libero; se la tavoletta andava a fondo,
l’accusato la seguiva subito, perché ritenuto
colpevole.
Non lontano delle fonti,
doveva esserci il tempio, che, secondo Diodoro,
aveva bellissimi portici. Naturalmente, o
all’interno di esso o all’esterno, nella spianata
prospiciente la facciata, doveva esserci un’ara per
i sacrifici, che in un primo periodo era stata
definita “implacabile” e successivamente
“placabile”.
Si ritiene, secondo le
asserzioni di Sabino (1° sec. d. C.), Pomponio (2°
sec. d. C.),Lattanzio ( 3°-4° sec. d. C.), e Servio
(4°-5° sec. d. C.), che ai Palici si facessero, nei
periodi più antichi, dei sacrifici propiziatori con
vittime umane e per questa ragione l’ara veniva
definita “implacabile”. Successivamente, secondo
Microbio (4°-5° sec. d. C.), in seguito a dei
sacrifici umani offerti al dio Adrano, su
indicazione dei Palici, che erano ritenuti dotati di
poteri divinatori, questi dei mostrarono la loro
benevolenza verso gli ubbidienti fedeli, facendo
tornare la fertilità del suolo compromessa dalla
siccità, e la loro ara divenne placabile, per
sempre.
Diodoro asserisce che la
venerazione e il rispetto versi gli dei Palici erano
tali che era da tutti accettato che le persone che
si rifugiavano nel loro tempio vi godessero di asilo
e di immunità e che strapparli con la forza da esso
avrebbe costituito delitto di violazione e di
sacrilegio.
Per questa ragione vi si
rifugiavano i servi che volevano fuggire dai
maltrattamenti dei loro padroni.
I gemelli Palici,
inoltre, come il dio Adrano, erano dei guerrieri e
proteggevano i loro fedeli in battaglia, tanto che
ai tempi della guerra di Ducezio (5° sec. a. C.)
contro gli invasori greci diventano i numi tutelari
della gente sicula.
Non sappiamo se gli dei
Palici fossero anche simbolo della virilità e
protettori di essa, come i gemelli Dioscuri, , ai
quali somigliano per molti aspetti; a giudicare dai
reperti fissili sotto forma di fallo, certo delle
offerte votive, ritrovati numerosi e oggi conservati
nel nostro museo, non sarebbe una supposizione
improbabile.
I Ciclopi
Secondo la mitologia, i
Ciclopi erano degli esseri primordiali, giganteschi,
crudeli e inospitali, tanto da arrivare al
cannibalismo. In uno periodo erano dediti alla
pastorizia, ma, se si toglie il cannibalismo,
praticato contro gli stranieri, i loro costumi non
appaiano eccessivamente rozzi. Nell’episodio omerico
di Poliremo si può notare con quanta cura il ciclope
la sua grotta e quanta attenzione ed affetto
prodighi verso il suo gregge. Dallo stesso episodio
si deduce chi i Ciclopi sapevano essere anche
agricoltori (producevano vino), si aiutavano a
vicenda, credevano nella divinazione e avevano una
loro certa religiosità.
Con l’avvento dell’era
dei metalli, come dice il mito, i Ciclopi, che
abitavano alle falde del vulcano Etna, ebbero dal
dio Efeso il potere della toreutica .
Come forgiatori di
metalli, andarono a vivere all’interno, dal quale
raramente venivano fuori, per esercitare l’arte
della chirurgia e della divinazione.
A rendere particolarmente
affascinante la figura dei Ciclopi e la tradizione
che avessero un unico occhio in mezzo alla fronte.
Secondo alcuni, questa tradizione sarebbe romana. Ma
non si vede, però, come possa essere romana, dato
chi i Romani non avevano mai visto
La tradizione di un solo
occhio deve essere, quindi, pre-omerica e,
probabilmente, deriva dalla antropomorfizzazione
dei numerosi crateri che costellano l’Etna a diverse
altitudini (anche Don Chisciotte vedeva dei giganti
al posto dei mulini al vento).
Un’altra tradizione,
greca questa volta, attribuiva ai Ciclopi tre occhi;
il terzo occhio era una metamorfosi fantastica del
lumicino che i Ciclopi, sempre secondo la
tradizione, dovendo lavorare al buio, all’interno
del vulcano, mettevano sulla fronte, trattenendolo
con una cinghia di cuoio. Potrebbe derivare da
questo terzo occhio l’attribuzione ai Ciclopi della
capacità della divinazione (avrebbero “visto” più
degli altri).
Non merita considerazione
il fatto che il ritrovamento, nell’Ottocento, di
crani di fossili di elefanti, con una grande
occhiera centrale, corrispondente alla proboscide,
identificati con i crani dei Ciclopi, abbia
alimentato la credenza che i Ciclopi avessero un
solo occhio, perché, come abbiano visto, questa
credenza era anteriore ad Omero.
La città:
Symethia
Il nome “Symethia” si
riferisce ad una presunta città sicula localizzabile
in un punto non precisato della media valle del
Simeto.
La prima menzione la
troviamo nella prima edizione de “Illustrazione
storico-archeologica di Adernò” (1910) di Salvatore
Petronio Russo, dove si identifica con tale nome la
“Città del Mendolito”, appena scoperta insieme a
Paolo Orsi.
Il Petronio Russo, nella
citata opera, a proposito della città di “Simethia”
ci dice che a
Alcuni storici pensano
che sia la città di Ducezio, chiamata “Palica” dal
vicino tempi degli dei Palici. Esiste ancora oggi
una contrada chiamata Policello.
Il Talleri è del parere
che questa sia l’antica “Simeto” o “Dimeto” di cui
parlano Tolomeo, Maurolico ed altri e i cui abitanti
Plinio ricorda essere tra i tributari dell’Impero
Romano.
Per il Petronio Russo la
città “Simezia” fu costruita dai servi che si erano
ribellati ai padroni e si popolò durante la guerra
sevile; ma una volta che questi furono debellati, la
città fu distrutta. Qui sono state trovate monete,
lacrimiere, olle cinerarie, ceramiche non istoriate
né pregevoli; resti di rozzi casolari, nessun
mosaico, nessuna statua, nessun capitello lavorato,
nessuna iscrizione, essendo ai servi vietata ogni
sorta di istruzione.
Secondo Di odore i servi
fuggendo la crudeltà dei padroni, cercarono asilo
presso il tempio di Marte, vicino all’altare dei
Palici; godendo così dell’immunità, essi edificarono
la “città del popolo servile” che chiamarono
“Simezia” da fiume Simeto.
Lo studioso Massimo
Cultraro sostiene che nelle fonti antiche non è
citata alcuna città col nome “Simezia”, per cui egli
crede che si tratti di una libera interpretazione,
priva di alcun riscontro nelle fonti, di un passo
del Rocco Pirri, da parte del Petronio Russo. Il
Pirri riporta la descrizione di un antico abitato
lungo il Simeto del quale sono visibili ancora le
“vetustissime ruinae in Symethium”.
Inoltre il Petronio
Russo, rileggendo ed interpretando un passo di
Plinio della “Naturalis Historia”, dove vengono
descritti gli abitanti delle città etnee al tempo di
Augusto, inventa il nome di “Simezia” e lo
attribuisce ad una città preesistente all’
“Adranon” dionigiana.
La scoperta dell’anonimo
centro siculo del Mendolito, ritenuto più antico
dell’Adranon greca, ha contribuito ad alimentare
l’ipotesi del petronio Russo.
Non è certo un caso che
lo stesso Petronio Russo abbia chiamato il Museo
Archeologico, da lui costituito con i reperti
trovati nel sito della “Città del Mendolito”,,
ospitato presso la canonica della chiesa Madre di
Adernò, come “Simeziano”.
Alla sua morte quasi
tutti i reperti sono andati dispersi.
La città
di Palica – Il Tempio di Marte e di Ercole
Da S. Petronio Russo: "
Illustrazione storico-archeologica di Adernò ":"
Nella località " Policello ", a occidente di
Adernò e sulla riva del Simeto sono state trovate
monete siracusane e resti di antiche fabbriche. C'
era qui l' antico tempio di Marte di cui parla
Virgilio ( Eneide Libro IX v.584 “Eductum Martis
luco, Simethia circuì Flumina pinguis ubi et
placabilis ara Palici ".
L'
aggettivo " placabilis " di Virgilio ci viene
spiegato da Diodoro che afferma esservi in questo
tempio l' asilo dei servi che fuggivano dai crudeli
padroni.
Diodoro inoltre parla dell' origine dei Palici e
della vetustà del Tempio in luogo amenissimo ove
Ducezio, condottiero dei Siculi, l' anno 2° dell'
olimpiade LXXXII, essendo consoli a Roma L. Postumio
e M. Orazio, fabbricò una città che cinse di mura e
chiamò " Palica ", dividendo ai cittadini gli
ubertosi campi dei dintorni; città di poca durata
perché distrutta e abbandonata ai tempi dello
stesso Diodoro ".
Quindi
secondo Petronio Russo oltre alla città di " Simezia
", sulle sponde del Simeto sorse pure la città di "
Palica " e le fonti dei Palici erano le due grandi
vasche " ove il Simeto, bipartendosi si
scarica formando due sublimi cateratti.......".
Il
Petronio Russo sostiene altresì che questo sito fu
abitato fin dopo la sconfitta e l' espulsione dei
Saraceni dalla Sicilia. " I pochi saraceni che per
più secoli proseguirono ad abitare questa regione,
stavano fedeli sotto il dominio dei padroni. Ciò si
conferma dallo storico patrio Sangiorgio ( Libro 2°,
cap. 3° ).
Infatti nel diploma di fondazione del Monastero di
S. Lucia istituito da Adelasia nel 1158 si legge che
nella donazione del feudodi Policello veniva
compreso anche l' attiguo distretto di S. Domenica e
S. Venera e il grande tenimento di vigneti ivi
esistente. I villani saraceni tributari coltivandolo
l' abitavano al di qua e al di là del fiume oltre i
cristiani ivi permanenti per la tutela della
Chiesa”.
Nella stessa contrada
“Policello” trovasi il tempio dedicato ad Ercole
come risulta dalla iscrizione “YHPAK . . .EI”, cioè
ad Ercole, incisa su di un capitello di pietra
lavica attaccato al dorso di una colonna.
Il Simeto nella
preistoria
Adrano fa parte della media valle del Simeto che
abbraccia anche i territori di Bronte, Biancavilla e
Peternò.
Per la sua posizione geografica molto favorevole,
gli insediamenti umani si sono avuti fin dalla
preistoria quando tribù nomadi di paleolitici,
provenienti probabilmente dall'Italia centro
meridionale attraverso il cordone di isolotti che in
quei tempi assai remoti collegavano
Esse infatti, data la loro posizione, permettevano
di osservare gli spostamenti stagionali della fauna
e quindi di cacciarla; erano inoltre ricche di
sorgenti d'acque.
Di questi uomini paleolitici non abbiamo resti
ossei, ma solo utensili in pietra lavica e selce.
Su un terrazzo fluviale denominato " Barcavecchia "
sono stati rinvenuti strumenti in selce e in
quarzite conservati nel nostro museo archeologico;
la selce veniva raccolta nel greto del fiume, mentre
la quarzite si recuperava negli affioramenti
vulcanici più interni.
I reperti sono strumenti di forma
circolare, scheggiati; armi di offesa e di difesa
per cacciare la macrofauna presente in quei tempi
antichissimi nella nostra zona e costituita quasi
sicuramente di elefanti, ippopotami e di un grosso
bue il " bos primigenus ".
Depositi di resti dei suddetti
animali sono stati rinvenuti anche nelle zone di
Pachino e di Agrigento.
Nella località " Fontanazza ", nell'area
dell'attuale centrale solare, nel 1971 una équipe di
archeologi ha individuato un accampamento
preistorico; delle capanne non è
rimasto nulla essendo costruite sicuramente con
materiale deperibile ( legno, pelli ).
Vi si possono invece individuare due aree: una in
cui venivano scheggiate le pietre e una dove
avveniva la macellazione degli animali e la
divisione delle carni fra i componenti delle tribù.
I resti degli animali rinvenuti sono probabilmente
di elefanti nani e presentano lacerazioni dovute al
taglio con le pietre.
A tal punto
ricordiamo che l' elefante, animale possente e
peculiare della Sicilia paleolitica, nel corso delle
glaciazioni, anziché scomparire come avvenne nelle
altre regioni, diminuì di dimensioni, continuando a
vivere in un ambiente simile a quello africano.
Nuovi insediamenti umani si riscontrano in età
neolitica ( IV millennio
a.C. ). Sono genti che non vivono solo di caccia e
di raccolta spontanea dei prodotti della terra, ma
introducono l'agricoltura, la pastorizia e l'arte
della ceramica.
Il bue non è più solamente animale da traino ma
diventa anche approvvigionamento di carne.
Questa gente neolitica aveva raggiunto la nostra
zona etnea risalendo con zattere il Simeto dalla
foce o attraverso il fiume Alcantara, mai
dall'interno dell'isola essendo questo ricoperto di
foreste e boschi dove si nascondevano animali
selvaggi e pericolosi.
I terrazzi fluviali furono adatti all'insediamento
grazie all'abbondanza delle acque sorgive, alla
fertilità del suolo, alla mitezza del clima,
all'abbondanza della selvaggina e alla pescosità del
fiume.
Al neolitico inferiore risalgono reperti fittili che
vanno sotto il nome di stile di Stentinello ( IV
millennio a.C. ) e che si possono ammirare nelle
sale del piano terra del nostro museo archeologico.
Si tratta di frammenti di ceramica lavorati senza
tornio, di anfore di varia forma e grandezza
decorate mediante graffiti, oppure con impressioni
effettuate con punzoni di vario tipo.
Alcuni vasi di argilla, riproducendo aspetti del
volto umano, assumono un valore simbolico; sono
stati eritrovati anche piccoli idoli di terracotta
che riproducono figure femminili, simbolo di
prosperità e di fertilità.
Questi reperti rappresentano le prime forme di
religiosità e documentano l'esistenza di villaggi in
territorio adranita nelle successive età
preistoriche per un arco cronologico di oltre mille
anni ( dal 4° al 3° millennio a.C. ). L'età
successiva (2° millennio a.C. ) è l'età dei metalli.
L'uomo ricava gli strumenti dal rame che fondendo
viene poi lavorato e forgiato. Dall'immenso
quantitativo di ceramiche ritrovate nelle grotte
necropoli, si evince che durante l'età dei metalli
(1° metà del 2° millennio a.C. ) visse in territorio
adranita una popolazione assai evoluta che
nell'agricoltura, nell'artigianato delle ceramiche,
nell'allevamento del bestiame e nel commercio,
manifestò una vitalità molto positiva.
Il nostro museo archeologico espone corredi funebri
di grotte necropoli. Queste erano grotte naturali,
formatesi con le varie eruzioni vulcaniche dell'Etna
e adibite ad ossari.