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La ninfa Talia o Etna-Talia e i Gemelli Palici

 

Secondo la mitologia, il dio Adrano avrebbe rapito e fatta sua sposa una ninfa che viveva nel Simeto e che aveva il nome di Talia, secondo alcuni studiosi, o di Etna-Talia, secondo altri per i quali sarebbe stata la figlia di Vulcano e nulla avrebbe avuto a che vedere con il fiume.

Questa ninfa genera due gemelli, ma, temendo che la dea Giunone possa pensare che i due neonati siano frutto di una delle solite avventure amorose del marito, Giove, e che, adirata, possa vendicarsi su i due innioccenti, prega la Terra di inghiottirli vivi. La madre Terra comprende l’angoscia di Talia e, esaurendo le sue preghiere, con pietà, ingoia i due gemelli, trasformandoli in sorgenti e, dopo un lungo cammino sotterraneo, li fa scaturire alla luce in un altro luogo, come se nascessero “di nuovo” (greco palin). Da questo miracoloso rinascere della loro vita i figli del dio Adrano e della ninfa Talia trarrebbero il loro nome di dei Palici.

Il ruolo della ninfa Talia sembra esaurirsi con la nascita dei Palici, perché d ilei non abbiamo ulteriori notizie, né, tantomeno, raffigurazioni. Gli dei Palici, al contrario, saranno venerati al pari, se non di più, del loro padre, il dio Adrano.

Le sorgenti dei Palici sarebbero scaturite sulle sponde del fiume Simeto; quella di destra era detta “chiara”, per la limpidezza cristallina delle sue copiosissime acque, quella di sinistra “nera”, non già a causa di impurità presenti nelle acque, bensì perché il suo gorgo appariva nero a causa della profondità e dalla nauta lavica del suo letto.

E’ stato tramandato che, davanti alle suddette fonti, avessero luogo delle cerimonie di purificazione, simili ai “giudizi di Dio” del Medioevo. Coloro che erano stati accusati di adulterio o furto dovevano giurare la loro innocenza  davanti alle fonti e il loro giuramento veniva inciso su delle tavolette che venivano buttate nell’acqua; se la tavoletta galleggiava, l’accusato veniva dichiarato innocente e lasciato libero; se la tavoletta andava a fondo, l’accusato la seguiva subito, perché ritenuto colpevole.

Non lontano delle fonti, doveva esserci il tempio, che, secondo Diodoro, aveva bellissimi portici. Naturalmente, o all’interno di esso o all’esterno, nella spianata prospiciente la facciata, doveva esserci un’ara per i sacrifici, che in un primo periodo era stata definita “implacabile” e successivamente “placabile”.

Si ritiene, secondo le asserzioni di Sabino (1° sec. d. C.), Pomponio (2° sec. d. C.),Lattanzio ( 3°-4° sec. d. C.), e Servio (4°-5° sec. d. C.), che ai Palici si facessero, nei periodi più antichi, dei sacrifici propiziatori con vittime umane e per questa ragione l’ara veniva definita “implacabile”. Successivamente, secondo Microbio (4°-5° sec. d. C.), in seguito a dei sacrifici umani offerti al dio Adrano, su indicazione dei Palici, che erano ritenuti dotati di poteri divinatori, questi dei mostrarono la loro benevolenza verso gli ubbidienti fedeli, facendo tornare la fertilità del suolo compromessa dalla siccità, e la loro ara divenne placabile, per sempre.

Diodoro asserisce che la venerazione e il rispetto versi gli dei Palici erano tali che era da tutti accettato che le persone che si rifugiavano nel loro tempio vi godessero di asilo e di immunità e che strapparli con la forza da esso avrebbe costituito delitto di violazione e di sacrilegio.

Per questa ragione vi si rifugiavano i servi che volevano fuggire dai maltrattamenti dei loro padroni.

I gemelli Palici, inoltre, come il dio Adrano, erano dei guerrieri e proteggevano i loro fedeli in battaglia, tanto che ai tempi della guerra di Ducezio (5° sec. a. C.) contro gli invasori greci diventano i numi tutelari della gente sicula.

Non sappiamo se gli dei Palici fossero anche simbolo della virilità e protettori di essa, come i gemelli Dioscuri, , ai quali somigliano per molti aspetti; a giudicare dai reperti fissili sotto forma di fallo, certo delle offerte votive, ritrovati numerosi e oggi conservati nel nostro museo, non sarebbe una supposizione improbabile.

 

I Ciclopi

Secondo la mitologia, i Ciclopi erano degli esseri primordiali, giganteschi, crudeli e inospitali, tanto da arrivare al cannibalismo. In uno periodo erano dediti alla pastorizia, ma, se si toglie il cannibalismo, praticato contro gli stranieri, i loro costumi non appaiano eccessivamente rozzi. Nell’episodio omerico di Poliremo si può notare con quanta cura il ciclope la sua grotta e quanta attenzione ed affetto prodighi verso il suo gregge. Dallo stesso episodio  si deduce chi i Ciclopi sapevano essere anche agricoltori (producevano vino), si aiutavano a vicenda, credevano nella divinazione e avevano una loro certa religiosità.

Con l’avvento dell’era dei metalli, come dice il mito, i Ciclopi, che abitavano alle falde del vulcano Etna, ebbero dal dio Efeso il potere della toreutica .

Come forgiatori di metalli, andarono a vivere all’interno, dal quale raramente venivano fuori, per esercitare l’arte della chirurgia e della divinazione.

A rendere particolarmente affascinante la figura dei Ciclopi e la tradizione che avessero un unico occhio in mezzo alla fronte. Secondo alcuni, questa tradizione sarebbe romana. Ma non si vede, però, come possa essere romana, dato chi i Romani non avevano mai visto la Sicilia prima delle guerre puniche e che Omero molto tempo prima aveva parlato di un occhio solo “grande come la luna”.

La tradizione di un solo occhio deve essere, quindi, pre-omerica e, probabilmente, deriva dalla antropomorfizzazione  dei numerosi crateri che costellano l’Etna a diverse altitudini (anche Don Chisciotte vedeva dei giganti al posto dei mulini al vento).

Un’altra tradizione, greca questa volta, attribuiva ai Ciclopi tre occhi; il terzo occhio era una metamorfosi fantastica del lumicino che i Ciclopi, sempre secondo la tradizione, dovendo lavorare al buio, all’interno del vulcano, mettevano sulla fronte, trattenendolo con una cinghia  di cuoio. Potrebbe derivare da questo terzo occhio l’attribuzione ai Ciclopi della capacità della divinazione (avrebbero “visto” più degli altri).

Non merita considerazione il fatto che il ritrovamento, nell’Ottocento, di crani di fossili di elefanti, con una grande occhiera centrale, corrispondente alla proboscide, identificati con i crani dei Ciclopi, abbia alimentato la credenza che i Ciclopi avessero un solo occhio, perché, come abbiano visto, questa credenza era anteriore ad Omero.

 

La città: Symethia

 

Il nome “Symethia” si riferisce ad una presunta città sicula localizzabile in un punto non precisato della media valle del Simeto.

La prima menzione la troviamo nella prima edizione de “Illustrazione storico-archeologica di Adernò” (1910) di Salvatore Petronio Russo, dove si identifica con tale nome la “Città del Mendolito”, appena scoperta insieme a Paolo Orsi.

Il Petronio Russo, nella citata opera, a proposito della città di “Simethia” ci dice che a 500 metri a nord della chiesa di Santa Domenica, nella contrada Mendolito, vi sono gli avanzi di una antichissima e ignota città.

Alcuni storici pensano che sia la città di Ducezio, chiamata “Palica” dal vicino tempi degli dei Palici. Esiste ancora oggi una contrada chiamata Policello.

Il Talleri è del parere che questa sia l’antica “Simeto” o “Dimeto” di cui parlano Tolomeo, Maurolico ed altri e i cui abitanti Plinio ricorda essere tra i tributari dell’Impero Romano.

Per il Petronio Russo la città “Simezia” fu costruita dai servi che si erano ribellati ai padroni e si popolò durante la guerra sevile; ma una volta che questi furono debellati, la città fu distrutta. Qui sono state trovate monete, lacrimiere, olle cinerarie, ceramiche non istoriate né pregevoli; resti di rozzi casolari, nessun mosaico, nessuna statua, nessun capitello lavorato, nessuna iscrizione, essendo ai servi vietata ogni sorta di istruzione.

Secondo Di odore i servi fuggendo la crudeltà dei padroni, cercarono asilo presso il tempio di Marte, vicino all’altare dei Palici; godendo così dell’immunità, essi edificarono la “città del popolo servile” che chiamarono “Simezia” da fiume Simeto.

Lo studioso Massimo Cultraro sostiene che nelle fonti antiche non è citata alcuna città col nome “Simezia”, per cui egli crede che si tratti di una libera interpretazione, priva di alcun riscontro nelle fonti, di un passo del Rocco Pirri, da parte del Petronio Russo. Il Pirri riporta la descrizione di un antico abitato lungo il Simeto del quale sono visibili ancora le “vetustissime ruinae in Symethium”.

Inoltre il Petronio Russo, rileggendo ed interpretando un passo di Plinio della “Naturalis Historia”, dove vengono descritti gli abitanti delle città etnee al tempo di Augusto, inventa il nome di “Simezia” e lo attribuisce ad una città preesistente all’  “Adranon” dionigiana.

La scoperta dell’anonimo centro siculo del Mendolito, ritenuto più antico dell’Adranon greca, ha contribuito ad alimentare l’ipotesi del petronio Russo.

Non è certo un caso che lo stesso Petronio Russo abbia chiamato il Museo Archeologico, da lui costituito con i reperti trovati nel sito della “Città del Mendolito”,, ospitato presso la canonica della chiesa Madre di Adernò, come “Simeziano”.

Alla sua morte quasi tutti i reperti sono andati dispersi.

 

La città di Palica – Il Tempio di Marte e di Ercole

 

Da S. Petronio Russo: " Illustrazione storico-archeologica di Adernò ":" Nella località " Policello ",  a occidente di Adernò e sulla riva del Simeto sono state trovate monete siracusane e resti di antiche fabbriche. C' era qui l' antico tempio di Marte di cui parla Virgilio ( Eneide Libro IX v.584 “Eductum Martis luco, Simethia circuì Flumina pinguis ubi et placabilis ara Palici ".

    L' aggettivo " placabilis " di Virgilio ci viene spiegato da Diodoro che afferma esservi in questo tempio l' asilo dei servi che fuggivano dai crudeli padroni.

    Diodoro inoltre parla dell' origine dei Palici e della vetustà del Tempio in luogo amenissimo ove Ducezio, condottiero dei Siculi, l' anno 2° dell' olimpiade LXXXII, essendo consoli a Roma L. Postumio e M. Orazio, fabbricò una città che cinse di mura e chiamò " Palica ", dividendo ai cittadini gli ubertosi campi dei dintorni; città di poca durata perché distrutta e abbandonata ai tempi dello  stesso Diodoro ".

    Quindi secondo Petronio Russo oltre alla città di " Simezia ", sulle sponde del Simeto sorse pure la città di " Palica " e le fonti dei Palici erano le due grandi vasche   " ove il Simeto, bipartendosi si scarica formando due sublimi cateratti.......".

    Il Petronio Russo sostiene altresì che questo sito fu abitato fin dopo la sconfitta e l' espulsione dei Saraceni dalla Sicilia. " I pochi saraceni che per più secoli proseguirono ad abitare questa regione, stavano fedeli sotto il dominio dei padroni. Ciò si conferma dallo storico patrio Sangiorgio ( Libro 2°, cap. 3° ).

    Infatti nel diploma di fondazione del Monastero di S. Lucia istituito da Adelasia nel 1158 si legge che nella donazione del feudodi Policello veniva compreso anche l' attiguo distretto di S. Domenica e S. Venera e il grande tenimento di vigneti ivi esistente. I villani saraceni tributari coltivandolo l' abitavano al di qua e al di là del fiume oltre i cristiani ivi permanenti per la tutela della Chiesa”.

Nella stessa contrada “Policello” trovasi il tempio dedicato ad Ercole come risulta dalla iscrizione “YHPAK . . .EI”, cioè ad Ercole, incisa su di un capitello di pietra lavica attaccato al dorso di una colonna.

 

Il Simeto nella preistoria

 

    Adrano fa parte della media valle del Simeto che abbraccia anche i territori di Bronte, Biancavilla e Peternò.

    Per la sua posizione geografica molto favorevole, gli insediamenti umani si sono avuti fin dalla preistoria quando tribù nomadi di paleolitici, provenienti probabilmente dall'Italia centro meridionale attraverso il cordone di isolotti che in quei tempi assai remoti collegavano la Calabria alla Sicilia, trovarono nelle terrazze laviche lungo il fiume, luoghi idonei all'insediamento e all'attività venatoria.

    Esse infatti, data la loro posizione, permettevano di osservare gli spostamenti stagionali della fauna e quindi di cacciarla; erano inoltre ricche di sorgenti d'acque.

    Di questi uomini paleolitici non abbiamo resti ossei, ma solo utensili in pietra lavica e selce.

    Su un terrazzo fluviale denominato " Barcavecchia " sono stati rinvenuti strumenti in selce e in quarzite conservati nel nostro museo archeologico; la selce veniva raccolta nel greto del fiume, mentre la quarzite si recuperava negli affioramenti vulcanici più interni.

    I reperti sono strumenti  di forma circolare, scheggiati; armi di offesa e di difesa per cacciare la macrofauna presente in quei tempi antichissimi nella nostra zona e costituita quasi sicuramente di elefanti, ippopotami e di un grosso bue il " bos primigenus ".

    Depositi di resti  dei suddetti animali sono stati rinvenuti anche nelle zone di Pachino e di Agrigento.

    Nella località " Fontanazza ", nell'area dell'attuale centrale solare, nel 1971 una équipe di archeologi ha individuato un accampamento preistorico; delle capanne  non è rimasto nulla essendo costruite sicuramente con materiale deperibile ( legno, pelli ).

    Vi si possono invece individuare due aree: una in cui venivano scheggiate le pietre e una dove avveniva la macellazione degli animali e la divisione delle carni fra i componenti delle tribù.

    I resti degli animali rinvenuti sono probabilmente di elefanti nani e presentano lacerazioni dovute al taglio con le pietre.

 A tal punto ricordiamo che l' elefante, animale possente e peculiare della Sicilia paleolitica, nel corso delle glaciazioni, anziché scomparire come avvenne nelle altre regioni, diminuì di dimensioni, continuando a vivere in un ambiente simile a quello africano.

    Nuovi insediamenti umani si riscontrano in età neolitica   ( IV millennio a.C. ). Sono genti che non vivono solo di caccia e di raccolta spontanea dei prodotti della terra, ma introducono l'agricoltura, la pastorizia e l'arte della ceramica.

    Il bue non è più solamente animale da traino ma diventa anche approvvigionamento di carne.

    Questa gente neolitica aveva raggiunto la nostra zona etnea risalendo con zattere il Simeto dalla foce o attraverso il fiume Alcantara, mai dall'interno dell'isola essendo questo ricoperto di foreste e boschi dove si nascondevano animali selvaggi e pericolosi.

    I terrazzi fluviali furono adatti all'insediamento grazie all'abbondanza delle acque sorgive, alla fertilità del suolo, alla mitezza del clima, all'abbondanza della selvaggina e alla pescosità del fiume.

    Al neolitico inferiore risalgono reperti fittili che vanno sotto il nome di stile di Stentinello ( IV millennio a.C. ) e che si possono ammirare nelle sale del piano terra del nostro museo archeologico. Si tratta di frammenti di ceramica lavorati senza tornio, di anfore di varia forma e grandezza decorate mediante graffiti, oppure con impressioni effettuate con punzoni di vario tipo.

    Alcuni vasi di argilla, riproducendo aspetti del volto umano, assumono un valore simbolico; sono stati eritrovati anche piccoli idoli di terracotta che riproducono figure femminili, simbolo di prosperità e di fertilità.

    Questi reperti rappresentano le prime forme di religiosità e documentano l'esistenza di villaggi in territorio adranita nelle successive età preistoriche per un arco cronologico di oltre mille anni ( dal 4° al 3° millennio a.C. ). L'età successiva (2° millennio a.C. ) è l'età dei metalli. L'uomo ricava gli strumenti dal rame che fondendo viene poi lavorato e forgiato. Dall'immenso quantitativo di ceramiche ritrovate nelle grotte necropoli, si evince che durante l'età dei metalli (1° metà del 2° millennio a.C. ) visse in territorio adranita una popolazione assai evoluta che nell'agricoltura, nell'artigianato delle ceramiche, nell'allevamento del bestiame e nel commercio, manifestò una vitalità molto positiva.

    Il nostro museo archeologico espone corredi funebri di grotte necropoli. Queste erano grotte naturali, formatesi con le varie eruzioni vulcaniche dell'Etna e adibite ad ossari.

 

del Prof. Angelo Abbadessa

Prof. Angelo Abbadessa