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Il Simeto nella Protostoria: La città del Mendolito

 

    Nella Sicilia centro-orientale la protostoria incomincia con la colonizzazione greca dell'isola avvenuta alla fine del VIII sec. a.C.

    A questo periodo e al fenomeno dell'immigrazione greca è legata la Città siculo-greca del Mendolito, sulla sponda sinistra del Simeto, in territorio adranita

    Ancora oggi si ignorano di essa il nome e le vicende.

    E' probabile che ivi ripararono le popolazioni dei vicini villaggi di gran parte del territorio adranita e centuripino; è pure probabile che nella seconda fase della guerra del Peloponneso ( spedizione ateniese in Sicilia ) essa subì le stesse vicende storiche di Centuripe, Ibla e Inessa, i cui territori furono devastati dai sodati greci (Tucidite "Le guerre del Peloponneso”).

    Virgilio, nel 9° libro dell'Eneide, parla di un giovane, figlio di Arcente, educato in una città presso il Simeto ove vigeva il culto degli dei Palici, il quale seguì Enea nelle sue peregrinazioni nel Lazio; il poeta mantovano a proposito accenna ad una palestra militare ( Campo di Marte ) e ad un altare dedicato a Palico ( non è chiaro se alludesse al dio padre dei Palici o addirittura al nome della città .

    Grande contributo ha dato l'archeologia grazie ai ritrovamenti effettuati dai proprietari dei terreni nell'impiantare agrumeti e alle ricerche archeologiche dirette da Paolo Orsi, dal rev. S. Petronio Russo, dal prof. Luigi Perdicaro e dal comitato cittadino adranita diretto dal prof. Saro Franco.

    Così è venuto alla luce nel 1908 il famoso ripostiglio bronzeo " Ciadamidaro " dove sono stati ritrovati circa 850 chilogrammi di reperti bronzei conservati all'interno di un grande pithos ; gran parte di questi reperti bronzei, fra cui il famoso " Kouros ", statuetta di un giovane atleta di pregevole fattura, si trovano nel museo archeologico di Siracusa; una minima parte nel museo di Adrano. Dice P. Orsi (Adrano e la città sicula del Mendolito ): "Quello che colpisce è la meravigliosa conservazione dei bronzi, dovuta ai detriti lavici nei quali furono avvolti. Le lance sono esemplari di meravigliosa conservazione, né ciò sorprenderebbe trattandosi di pezzi fusi; ma egualmente conservati sono copiosi esemplari, per lo più rotti  o ripiegati, di lamine di cinture: una vera rivelazione per la storia del costume siculo. Di fibule, pochissimi esemplari rotti. Questo ammirabile ripostiglio dell'Etna, integra e si integra con quelli di Giarratana e Caltagirone.

    Esso spetta, salvo un più attento esame, all'VIII - VII sec.a. C ". Il ripostiglio bronzeo conteneva ancora bellissimi cinturoni sbalzati che costituivano un' armatura caratteristica dei guerrieri siculi, e degli informi pani di metallo grezzo. Il prof. G. Libertini (“Adranon: questioni storiche e topografiche”-1932) avanza l' ipotesi che questo materiale così numeroso e diverso possa rappresentare i residui di un' officina per la lavorazione dei metalli, oppure un' offerta fatta alla divinità cui venivano portati anche quegli informi blocchi che rappresentavano quasi un dono in denaro.

     Nel nostro museo si custodiscono ancora altri reperti venuti alla luce in zona come elementi architettonici in basalto etneo, architravi, resti di colonne e capitelli.

     Di questa città siculo-greca ancora oggi è visibile il muro di cinta detto " il murazzo ". Ma la parte più importante di questa cinta è l'ingresso sud della città formato  da due grosse torri elevate con muratura a secco, le quali introducono verso l'interno della città stessa. 

    Una delle torri reca un'iscrizione siculo greca a carattere pubblico "IAMAKARAM ". L'epigrafe si trova oggi al museo archeologico di Siracusa.

    Sono state rinvenute altre epigrafi siculo-greche esposte nel nostro museo fra cui il " cippo Sanfilippo " e il " cippo Reale ".

    Le epigrafi ritrovate nella misteriosa cinta del Mendolito sono in caratteri in gran parte tolti dall' alfabeto greco ma non sono in lingua greca quindi certamente sicula. (P. Orsi " Not. Scavi 1912, p. 414).

    Dice il Libertini nella sopraccitata opera: " E' inutile ricordare quanto interesse questa scoperta abbia destato negli studiosi, quanti tentativi vennero fatti e dall' Orsi e dal Ribezzo e dal De Santis per cercare di dividere le parole di questa lingua oscura, di penetrarne il significato, di riallacciare la lingua stessa all' italico, tentativi che non si può dire abbiano condotto ad un risultato positivo ma dei quali si comprende l' importanza quando si pensi che in fatto di lingua sicula noi non conosciamo che pochissimi vocaboli tramandatici da scrittori greci....".

    Altre due epigrafi trovate in loco e assegnabili al IV sec. a. C. sono invece in lingua greca. In una, incisa su una base, si fa il nome di tre personaggi che rivestono la carica di " IAROTHUTAI " carica sacerdotale che appare solo in un titolo di Agrigento, ed un' altra in cui si deve certamente leggere una dedica ad Ercole (P. Orsi in " Riv. di Storia Antica " ). 

    Conosciamo poi la necropoli con tombe collettive tipo cappelle di famiglia e ancora si possono vedere i resti di piccole case con cortile in comune. Nei cortili sono stati trovati pesi da telaio,macine, forni usati probabilmente nella stagione estiva. Si presume che i lavori venivano svolti collettivamente nel cortile e le stanze servissero per il riposo." Ogni casa doveva avere le sue giarre dell'acqua le quali servivano anche per derrate ed oggetti " ( P. Orsi ).

    L'area della città è di circa 64 ettari. Doveva essere quindi una delle più grandi città della Sicilia orientale. Si pensa che potesse ospitare circa 2.000 persone: una popolazione che visse ben organizzata, forse da un capo, con una classe sacerdotale, un ricco commercio e un florido artigianato che si distinse per la operosità delle maestranze dei bronzieri famosi in tutta l'isola. Si sospetta che in questa città sia venuto lo scultore calabro Pitagora Reggino.

     A proposito della ubicazione, dice P. Orsi: "La città si estende ad est del colle lavico nel cui burrone di est è leggenda corresse un tempo il Simeto; in tal caso essa avrebbe avuto un formidabile fiancheggiamento e la cosa non mi pare geologicamente inverosimile ".

    Agli inizi del V sec. a.C., la città del Mendolito venne improvvisamente abbandonata; restano ignote le cause che costrinsero all'esodo l'intera popolazione. Sappiamo che tra il 475-460 a.C. il condottiero Ducezio sollevò i Siculi contro i Greci. Si presume che questi ultimi distrussero la città, facendo disperdere gli abitanti, fino a quando Dionigi, il Vecchio nella 95° Olimpiade di Siracusa ( 400 a.C. ), fondò un'altra città nella parte alta ( località Buglio, Giambruno ) che chiamò Adranon in onore di un famoso tempio dedicato al dio Adranos di cui però ancora oggi non è stata trovata alcuna traccia.

    E' uno dei motivi per giustificare lo spopolamento della città lungo il Simeto che per comodità gli archeologi chiamano " città bassa " a favore della nuova " città alta ".

    Ma a spopolare la città del Mendolito possono essere stati altri motivi come terremoti, alluvioni o pestilenze.

    Il territorio comunque doveva essere molto appetibile per la presenza di un fiume ricco di pesci oltre che navigabile, di acqua abbondante, di grano e cacciagione, di fitte boscaglie per cui Dionisio la conquisterà anche per l'approvigionamento del legname ricco di resina, utilissimo per la carpenteria navale.

    E' probabile che il legname, tagliato dai boschi, venisse gettato poi dalla rocca, forse " u sautu de chianchi " presso l'attuale cimitero e per mezzo di zattere portato a Catania per essere lavorato.

    Alla fine del V secolo la città del Mendolito, che vive complessivamente 700 anni, viene abbandonata.

Il velo del silenzio si stende per sempre su di una comunità umana che ha saputo scrivere una pagina di storie eloquente e significativa, che apre spiragli di conoscenza sul processo di sviluppo dei popoli nel lontano passato.

 Dopo secoli di presenza attiva e incisiva nel territorio scelto e utilizzato per il loro insediamento, il vento rovinoso, che segue sempre ai rivolgimenti naturalistici o storici, ha cancellato ogni traccia della loro sopravvivenza in questi luoghi.

 Sotto la distesa degli aranceti che ricopre, , ancora, forse, il segreto di una esistenza umana vissuta migliaia di anni fa; sotto l’inseguirsi dei lunghi filari di alberi, che consegnano il succoso frutto dell’arancio, una vita, che si è spenta nel lontano passato, racchiude il segreto di una storia che forse un giorno, in un futuro prossimo o remoto, sarà possibile leggere.

 

Il Simeto dall’età' Romana all’età' Arabo - Normanna

 

    Ben poco sappiamo degli insediamenti umani nella media valle del Simeto durante la dominazione.

romana.

    Cicerone nelle " Verrine " e nel " De Frumento " ci dice che fra le città oppresse da Verre, c'era anche Imachara, limitrofa del territorio centuripino. Con probabilità potrebbe essere  la città del Mendolito che cos' potrebbe essere stata riabilitata in età romana. A questa età comunque risale la base dell'arcata maggiore del ponte dei Saraceni che faceva parte della " via frumentaria ".

    Durante l'invasione gotica del V sec. d..C. visse nella vallata del Simeto una comunità di cristiani; Esiste infatti, incisa in questo periodo, l'epigrafe delle " Favare " presso le quali si riunivano clandestinamente i primi cristiani per praticare i loro culti. L'epigrafe reca i nomi di alcuni cristiani ( Paulenos, Eusebios ) con il simbolo cristiano di una palmetta e il verbo " eufrantesan " ( vissero felici ).

    Con il ritorno da Antiochia di San Birillo, molti nostri antenati abbracciarono la fede cristiana e i due templi che sorgevano sulle sponde del Simeto, uno dedicato a Marte e l'altro ad Ercole, furono convertiti in chiese cristiane. Nella Valle delle Muse, in contrada Pulichello, si edificò la chiesa di S. Maria, in contrada Sciarone invece quella dedicata a Santa Domenica, Vergine e Martire:

   Nulla sappiamo di insediamenti umani durante l'età bizantina.

    Durante l'invasione araba e la conseguente dominazione  che durò due secoli ( 850 - 1070 ), i Saraceni si insediarono in questa fertile pianura che era la via che da Messina portava a Palermo attraverso la rocca araba di Troina.

    Proprio qui, nel 1040, ventimila arabi cercarono di sbarrare il passo al condottiero Giorgio Maniace che con un altrettanto numeroso esercito di cristiani, bizantini, siciliani, li sconfisse in un pianoro che venne in seguito chiamato " Piano della Sconfitta " da Saraceni e " Maniace " dai cristiani.

    Ritornando al nostro territorio, dobbiamo dire che alcune famiglie di Saraceni preferirono rimanere in questo luogo ridente e fertile che da essi prese il nome do " Casale ", rispettando il culto cristiano che ivi si praticava e costruendo un ponte con arco gotico, il famoso Ponte dei Saraceni la cui base dell'arco maggiore, come abbiamo già detto, risaliva all'età romana. Detto ponte collegava i feudi del Mendolito e di Carcaci. ( Ricostruito in stile gotico ai tempi di Ruggero II ( 1101 - 1154 ), ebbe in seguito sostanziali rifacimenti nei secoli XVI e XVII ad opera di architetti palermitani ).

    In età normanna, nella località " Simetia di Polichello ", esisteva un villaggio di arabi cristianizzati. Un documento certo è l'atto di donazione stipulato il 15 maggio 1158 con l'arcivescovo G. Barense nel quale la contessa Adelasia, che aveva ereditato dal padre il territorio di Adernò, nell'istituire il Conservatorio delle Vergini sotto il nome di Santa Lucia, donava pure il Casale ove risiedevano ancora ventiquattro famiglie di Saraceni cristianizzati, denominati " villani "

    In seguito il Casale fu abbandonato ma il culto di S. Domenica rimase per molti secoli sostenuto fino al 1860 dal monastero di Santa Lucia.

    Nel terreno adiacente alla chiesa, si celebrava la festa campestre di S. Domenica durante la quale si svolgeva una fiera di bestiame nell'ultima settimana di agosto, in base a un Decreto Reale del 1826 di Francesco I°.

    " Viandanti, bordonari e pastori, scendevano dai monti   a svernare nella piana di Catania, sostavano e si rifocillavano in questo luogo ameno e ridente, facendo donazioni di grano o altro prima di partire, in cambio della Grazia concessa dalla martire di salvaguardare i loro armenti e le loro greggi. La venerazione della Santa si è protratta fino agli anni '60 di questo secolo. Oggi la festa non è più celebrata e non vi si tiene alcuna fiera ".

 

Zattere e traghetti sul Simeto: “Le Giarrette”

 

    Durante la dominazione romana, lungo il corso del Simeto, da Maniace a Catania, furono costruiti diversi ponti per unire le due sponde del fiume per il passaggio delle soldatesche e delle carovane di animali da soma carichi di grano.

    Nel corso delle dominazioni barbariche, essi andarono, quasi nella totalità, distrutti per mancanza di manutenzione.

    Dato il regime torrentizio del Simeto, nei periodi di magra era facile individuare guadi o passi, ma nei periodi di piena o non si attraversava o si rischiava di lasciarsi trascinare dalla corrente. Col fiorire dell'agricoltura  e del commercio in età araba, si incominciarono ad usare delle zattere o barche denominate " giarrette " che venivano poste allo sbocco delle trazzere più frequentate di qua e di là del fiume per permettere il traghettamento di persone, animali e merci.

    Queste venivano assicurate alle due sponde del fiume da grosse gomene dette " libani " che servivano da guida e di appiglio attraverso i vortici della corrente.

    Sulla sponda orientale del fiume, c'era una specie di scalo con un grande pagliaio dove stavano i barchieri e gli attrezzi: tronchi, tavole, corde e pece per le barche. Queste erano di proprietà del sovrano o del nobile che le aveva ricevute col feudo; esse venivano gestite in gabella per periodi che variavano dai 3 ai 6 anni.. Il gabelloto corrispondeva al feudatario o ad un suo vassallo un canone annuo in denaro o in vettovaglie e a sua volta si rivaleva sui traghettanti, riscuotendo particolari "iura " o diritti di passaggio da massari, pastori ecc.

    Le Giarrette più note furono tre: quella di Adernò o di Mandarano , quella di Paternò o della Poira e quella di Catania non lontana dalla foce del Simeto.

    Della Giarretta di Adernò si ha notizie da lettere del conte Francesco Moncada del 27-8-1564. In tale contratto si afferma che, per disposizione del conte, i proventi della barca dovevano essere percepiti annualmente dai procuratori della Chiesa Matrice per spenderli nell'acquisto di cera, olio, ecc. Dal 1564 al 1636, la Matrice gabellò la barca percependone un canone annuo di 10 onze dai gabelloti che per le loro prestazioni esigevano i seguenti diritti: dai borghesi che facevano masserie, tumoli quattro di grano per giornata di aratro; dai pastori un cantaro di formaggio per iazzo oltre a capretti, ciavarelli e ricotte.

    Questo pesante onere gravò per tanti anni e spesso si sollevarono lamentele da parte di agricoltori

e pastori che non intendevano pagare così forti diritti. A loro volta, i procuratori della Matrice si lamentavano sulla magrezza dei frutti della barca che rendeva meno di quello che ci voleva per le riparazioni, perciò essi, con un atto del 27-5-1718, concessero al barone Antonio Spitaleri Iunior il diritto di tenere per suo conto la barca nel fiume con le stesse modalità con cui l'aveva tenuta per alcuni secoli la Matrice e tutto per il canone annuo di 10 onze per pagare i quali, il barone pose un'ipoteca su tutti i suoi beni. I ripari e la ricostruzione della barca in caso di naufragio erano tutti a carico del concessionario.

    Ma i pagamenti alla Chiesa non furono regolari e il 3-5-1759 il nipote di don Antonio, don Rosario Spitaleri, era debitore di 127 onze da pagare, in rate annuali, ai procuratori della Matrice.

    Nel dividere i beni di don Agatino, figlio di don Antonio Spitaleri, tra gli eredi si convenne che la barca rimaneva in comune e che il censo di 10 onze alla Matrice dovevano pagarlo nella misura di 5 onze donna Anna Spitaleri e Ciancio e di 5 onze don Felice e donna Rosaria Spitaleri.

    Nell'anno 1797, il principe di Paternò don Francesco Alvarez de Toledo mise in servizio un'altra barca distante da quella degli Spitaleri. Questi intentarono causa al principe al quale, con sentenza dell' 8-11-1799, fu intimato di situare la sua barca in un altro luogo molto distante, per non ledere il diritto di esclusiva preteso dagli Spitateri che però non vollero più contendere contro un così potente antagonista e finirono per abbandonare il negozio della barca e non fecero più versamenti alla Matrice.

 

Dal Simeto, una gemma: l’ambra

 

    Nella notte dei tempi la valle del Simeto era coperta da fitte boscaglie i cui alberi erano ricchi di resina.

    E' questa una sostanza che col caldo tende ad essere quasi liquida e cola giù dal tronco, invischiando minuscoli insetti, polline, fiori e altre cose che incontra nel suo cammino.

    Poi le sostanze volatili che rientrano nella sua complessa formula chimica svaniscono e la resina diventa più compatta, quasi una pasta cristallina. Passano gli anni, milioni di anni, e la resina si è fossilizzata e al suo interno polline, fiori e insetti sono rimasti tali e quali.

    L'età dell' ambra varia dai trenta ai cento milioni di anni; la storia dell' uomo data circa centocinquantamila anni; per cui un ciottolo d' ambra è da duecento a cinquecento volte più vecchio di Adamo e Eva; gli insetti intrappolati nell' ambra urlano la loro tragedia ventimila volte più antica di quella di Gesù.

    L' ambra è la più giovane fra le pietre preziose; è fra le pietre più tenere e leggere: un'unghia la può scalfire e quasi galleggia nell' acqua salata. E' una pietra preziosa senza essere una pietra, in quanto deriva dal regno vegetale.

    In Sicilia, nel greto del fiume Simeto, si rinveniva fino a pochi anni fa, la più bella e la più preziosa ambra del mondo: la " simetite " che trova largo impiego nel campo della gioelleria più raffinata.

    Da quando hanno regolamentato con dighe e argini il corso del fiume, è sempre più difficile trovarne e bisogna accontentarsi del materiale proveniente dal Baltico o dall' America Centrale.

    L' ambra vanta il maggior numero di origini mitiche, di leggende, di proprietà terapeutiche, di virtù magiche. Essa è la prima pietra preziosa di cui parla Plinio il Vecchio nella sua "Historia Naturalis " (libro XXXVII )."..... Demostrato la chiama " Lyncurium " e dice che deriva dall' orina delle linci; dai maschi quella di colore rossastro, dalla femmine quella di colore più morbido e candido. Secondo Teomene, nei pressi della grande Sirte, c' è il giardino delle Esperidi...ivi ci sono alberi di pioppo dalle cui cime l' ambra cade nello stagno, dove poi viene raccolta dalle fanciulle delle Esperidi....

    Le varietà dell' ambra sono numerose. Fra queste quella bianca è di profumo straordinario ma non ha pregio; quelle giallo-rossicce hanno maggiore valore e fra queste ancora di più quelle traslucide; sono le più apprezzate quelle chiamate " Falerne " dal colore del vino, trasparenti e di colore morbido, nelle quali piace anche la morbidezza del colore del miele cotto..."

    Orazio nel libro IV, epigramma LIX dice: " Una vipera s' arrampicava sui rami piangenti delle Elladi, la perla liquida dell' ambra gialla l' incontra e le cola addosso, essa perde subito il senso del movimento e rimane prigioniera in questa materia ghiacciata. Non ti vantare, o Cleopatra, del tuo regale sepolcro, giacché una vipera riposa in una bara ben più nobile della tua ".

del Prof. Angelo Abbadessa

Prof. Angelo Abbadessa